lavoro

"Chi fa la festa allo Statuto dei lavoratori?", di Alfonso Gianni

Quest’anno ricorrono il centenario della Confindustria e il quarantennale dello Statuto dei diritti dei lavoratori. Dati i rapporti di forza attualmente esistenti, è lecito temere che il padronato cercherà di fare la festa allo Statuto dei diritti dei lavoratori. Le avvisaglie ci sono tutte, non solo nei comportamenti confindustriali, ma anche negli atti e nei propositi del governo. Quest’ultimo aveva tentato di ritornare all’assalto dell’articolo 18, procedendo con passi felpati e a fari spenti. Per fortuna qualcuno alla fine se ne è accorto, malgrado la disattenzione durata quasi due anni. La materia del licenziamento è stata espunta dal nuovo testo uscito dalla commissione Lavoro della Camera, ma questo resta del tutto insufficiente per rispondere positivamente ai rilievi mossi nel puntuale e puntuto messaggio con il quale il Presidente della Repubblica aveva rinviato il testo al legislatore. La rinuncia forzata al giudice non diventa meno incostituzionale se si esclude il licenziamento, poiché la Costituzione stabilisce che «tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi» e questi possono riguardare qualunque tipo di controversia sorta nel rapporto di lavoro. Né lo spostamento di tale rinuncia dal momento della stipulazione del contratto di lavoro al superamento del periodo di prova è sufficiente per porre il lavoratore al riparo da ogni ricatto, permanendo la sua condizione di maggiore debolezza rispetto alla controparte. Il ministro Sacconi ha già annunciato un «nuovo statuto dei lavoratori» che sostituirà la legge 300. Non basterà scavare trincee. Bisogna dotarsi di una proposta contraria ma altrettanto ambiziosa. La presentazione da parte di esponenti del Partito democratico di una proposta di legge sul contratto unico di ingresso (raccogliendo un’idea di Tito Boeri) non mi pare però sufficiente. Da un lato, essa testimonia della fine di un’illusione sull’uso della flessibilità,ampiamente coltivata nella sinistra mentre a milioni crescevano i precari, e quindi riapre positivamente la discussione, anche sul salario minimo. Dall’altro lato va rilevato che la sospensione della tutela reale contro i licenziamenti (cioè il diritto alla reintegra) per tre anni appare un periodo troppo e inutilmente lungo; la mancata soppressione delle esistenti figure di lavoro precarie un controsenso; la determinazione di una soglia stipendiale per decidere chi ha un rapporto di lavoro a progetto e chi no, un assurdo. Perché allora non tornare alla proposta che venne elaborata dalla Cgil, che con più coerenza e rigore si proponeva la ricomposizione del mondo del lavoro, smascherando il finto lavoro autonomo in base alla natura del rapporto di lavoro e non alla misura della sua retribuzione?

L’Unità 29.04.10