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Bersani: "Un Pd di lotta per i precari", di Fabio Martini

A poche ore dal primo maggio Pier Luigi Bersani è tornato nella sua Piacenza carico di buon umore per i complimenti che in tanti gli hanno trasmesso per la «prestazione» ad «Annozero», durante la quale ha condito la sua riconosciuta competenza con una carica passionale che spesso resta annegata nella bonomia. Dice lui: «Sono stupito dello stupore! Non m’hanno mai visto davanti ad un’assemblea urlante e incazzata? Io non sono aggressivo, ma se mi cercano mi trovano. E succederà ancora!». E in occasione della festa del lavoro, Bersani annuncia una correzione di rotta che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe far uscire il Pd dalla difesa esclusiva delle classi sociali garantite che finora ne ha limitato la crescita elettorale.

Lei tutte le sere ripete ai Tg che il lavoro è il problema dei problemi, ma perché faticate tanto a parlare proprio ai precari, che in larga maggioranza votano per il Pdl e la Lega? Il voto al Pd non lo considerano né utile né giusto?
«E’ vero, da alcuni anni i giovani ci votano finché sono studenti, ma quando entrano nel mercato del lavoro tendono ad allontanarsi un po’. Quando l’occupazione è cresciuta, è prevalsa la praticità un po’ cinica del messaggio della destra: poche balle, mettiti d’accordo con l’imprenditore, arrivederci e grazie. Però gli ultimi flussi elettorali dicono che per la prima volta abbiamo qualche problema con gli anziani e un certo recupero sui giovani. La situazione sociale sta peggiorando. La contrapposizione tra garantiti e non garantiti sta largamente sfumando, andiamo verso un universo di vulnerabili. Dentro, i precari ma anche gli operai “iper-garantiti” di Piombino».

Se votassero soltanto i laureati, i dipendenti pubblici, il ceto medio informato, il Pd sarebbe il primo partito italiano: non pensa che sarebbe tempo di allargare i vostri interlocutori sociali oltre il recinto dei garantiti?
«Abbiamo problemi nell’elettorato “profondo”, piccola imprenditoria, casalinghe, lavoro dipendente atomizzato. Dobbiamo aggiornare linguaggio e proposte. Quando dico che il lavoro è la questione centrale, penso al lavoro dipendente ma ritengo che dobbiamo saper interloquire col lavoro autonomo, col mondo delle professioni, con quello imprenditoriale fatto come Dio comanda».

Ma per farsi capire in quei contesti, bisogna parlar chiaro…
«Il messaggio sul quale dobbiamo insistere è questo: c’è un destino comune nell’universo del lavoro. C’è una catena che lega la decurtazione dei redditi per centinaia di migliaia di persone, l’abbassamento dei consumi, la chiusura di ventimila piccoli esercizi commerciali, le difficoltà di tante imprese. E’ ora di creare un po’ più di lavoro. Sbloccando il patto di stabilità dei Comuni che hanno già i soldi, ma anche tutte le politiche di sostegno all’innovazione. E il lavoro precario non può più costare la metà di quello a tempo indeterminato».

Quando è scoppiata la crisi, voi avete chiesto di investire un punto di Pil: non saremmo finiti come Spagna e Grecia?
«Mai pensato di aumentare il debito, ma purtroppo il governo ha sbagliato il mix: sono calati contemporaneamente investimenti, entrate fiscali, occupazione, è aumentata la spesa corrente».

Sulla vicenda greca, è disposto a dir “bravo” a Tremonti?
«In Europa si sta intervenendo malamente e con un gravissimo ritardo che ci stanno costando caro. Tremonti ora si è un po’ convertito, ma era quello che criticava l’Europa perché misurava le zucchine. E’ gente che ha azzoppato l’Europa e un bel mattino pretende che corra».

Il ministro Scaiola, dovrebbe dimettersi?
«Prima di chiedere dimissioni, è giusto che venga in Parlamento e lì possa spiegare le sue ragioni. Ma quel che ha detto fin qui è largamente insufficiente».

Bersani lei è un solitario: nei primi 200 giorni da leader si è sentito lasciato un po’ solo?
«Ma no, sono in una compagnia piuttosto allegrotta e vociante. Certo, bisogna costruire meglio il collettivo, essere leali col progetto comune. Picconarsi in casa, questo no».

I suggerimenti dei big Pd sono questi: serve «un partito più sexy», «più combattivo», mentre Fini «è un interlocutore». Non pensa ci sia una crisi di idee nella generazione che ha portato per la prima volta i progressisti al governo? I leader pagano anche le carenza dei gruppi dirigenti?
«I leader sono lì per caricarsi di tutto. Non mi sentiranno mai recriminare. C’è anche un problema di idee ma mettiamoci nel quadro dei partiti progressisti europei che hanno pagato il ripiegamento davanti alla globalizzazione che invece la destra ha saputo intepretare, sia pure in modo regressivo».

Perché rimettere in discussione le Primarie, come fa D’Alema?
«Le Primarie le abbiamo inventate noi e sono preziose, ma è un errore pensare a consultazioni solo di partito per una funzione pubblica. Devono essere condivise, non essere un automatismo. Quella diventa boria di partito».

Le ambizioni di Nichi Vendola?
«Chi ha rapporti di coalizione con noi, deve portarci rispetto. Sia chiaro: questo lo pretendiamo».

La Stampa 30.04.10

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