cultura

"Il patrimonio tagliato a fette. I rischi del federalismo demaniale", di Gian Antonio Stella

Pareva tutto facile, sulla carta. Chi mai poteva opporsi all’idea di usare meglio tanti beni statali a volte abbandonati passandoli a Regioni, Province e Comuni? È vero o no, come spiegò Giulio Tremonti, che «c’è un enorme patrimonio ed è una pazzia che sia gestito da un ufficio a Roma dove non sanno quanto vale» e dunque «è giusto che lo Stato abbia beni nazionali e simbolici ma non che faccia la mano morta al contrario su beni che hanno senso se gestiti localmente»? Macché: il «federalismo demaniale» sta incontrando obiezioni maggiori del previsto. E non solo delle opposizioni, degli ambientalisti o dei guardiani di quello che Croce chiamava «il volto della patria».

Alcuni si chiedono fino a che punto lo Stato possa trasferire agli enti locali spiagge, caserme, stazioni, terreni o edifici vari senza intaccare quel patrimonio che è la vera garanzia di «ultima istanza» per l’immenso debito pubblico. Altri, come uno studio del Servizio bilancio della Camera, confermando il rischio di «affievolire gli strumenti di garanzia dello Stato», segnalano che il passaggio «a titolo non oneroso» di tanta ricchezza immobile potrebbe impedire di destinare all’abbattimento del debito i proventi delle dismissioni visto che lo Stato è obbligato a farlo ma gli enti locali no. Altri ancora, come il direttore dell’Agenzia del demanio Maurizio Prato, ammettono scetticismo sui tempi: è plausibile che entro 30 giorni ogni amministrazione dica esattamente quali beni vuole mantenere e che entro 180 giorni arrivi il primo decreto della presidenza del Consiglio con l’elenco dettagliato di questi beni da «restituire», dicono i leghisti, al territorio? Per non dire dei contrasti tra le Regioni, che vorrebbero rastrellare tutto e redistribuire, e gli altri enti che vorrebbero al contrario che questa «restituzione» fosse diretta e senza intermediari. Insomma: un caos. Sul quale ha gioco facile chi chiede, sia a sinistra sia nella maggioranza, di veder bene i conti prima di sbagliare il passo.

Al di là degli aspetti tecnici, sui quali Calderoli è convinto di trovar la quadra («Se il debito degli enti locali rientra nel debito pubblico generale, allora anche il patrimonio degli enti locali rientra nel patrimonio pubblico») c’è qualcosa di fondo che non è chiaro: siamo sicuri che non saranno tolti al demanio certi gioielli di famiglia? Certo, il governo ha giurato che non verranno smistati i beni culturali. Ma resta quel dubbio sottolineato dal presidente stesso del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici Franco Karrer al Sole 24 Ore: «Finora, valorizzare ha voluto dire dismettere » . Cosa che Vittorio Emiliani ha tradotto brusco così: i Comuni, «indebitati dalla demagogica soppressione dell’Ici sulla prima casa, saranno portati a vendere il prima possibile».

Una forzatura polemica? Sarà… Ma è difficile immaginare un Comune con l’acqua alla gola che, potendo dire «questo lo voglio, questo no», si faccia carico di un pezzo di patrimonio da valorizzare investendo soldi che non ha. Più facile che punti a prendere tutto ciò che può sfruttare o vendere per fare cassa. La domanda chiave è: sfilati al demanio statale, tutti quei beni resteranno inalienabili e cioè di proprietà dei cittadini italiani per essere dati solo «in gestione» agli enti locali? O potranno essere ceduti anche a «fondi comuni di investimento» in cui gli enti locali possono essere soci di minoranza di privati che cercano solo l’affare? Le risposte finora non sono state nette. E finché il nuovo testo non sarà definito, come dice Italia Nostra, «è difficile scartare i peggiori sospetti».

Il Corriere della Sera 03.05.10