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"Lontano dalla realtà", di Luigi La Spina

Il maggior rammarico, in queste tristi ore, dell’ex ministro Claudio Scajola dovrebbe essere quello di aver affidato la sua difesa all’avvocato Claudio Scajola. Il legale, forse per inesperienza professionale, forse per arroganza provinciale, ha scavato con pertinacia, in dieci giorni di dichiarazioni inverosimili, un tale fossato di credibilità intorno al suo assistito da costringerlo all’inevitabile sprofondamento politico delle dimissioni.

L’allontanamento progressivo dell’ex ministro dalla realtà è documentato dal linguaggio, rivelatore infallibile ma anche inesorabile di una sindrome masochistica. Scajola, oltre alle rituali accuse contro il «complotto mediatico», parte già dall’ammissione di conoscere l’architetto Anemone per ragioni d’ufficio. Poi, non riesce a spiegare come mai non sia sorpreso dallo straordinario affare costituito dall’acquisto di una casa a meno della metà del valore di mercato.

Infine, arriva al culmine del tentativo di convincere l’opinione pubblica dell’impossibile: se sapessi – dice – che qualcuno, a mia insaputa, ha pagato una parte della mia abitazione, rescinderei il contratto. Una vera e propria scalata nell’assurdo, dove un acquirente di tale lignaggio non conosce i prezzi delle residenze romane e, in seguito, diventa ministro per lo Sviluppo economico. Dove benefattori misteriosi, tempestivamente scesi dal cielo, donano a due sorelle, non bisognose ma dotate di un cognome allusivo, al di qua e al di là del Tevere, integrazioni risarcitorie per uno sconto eccessivo.

Al di là del «caso Scajola» e del personale grado di responsabilità nella specifica vicenda della sua casa che solo la magistratura avrà il compito di valutare, l’attenzione dovrebbe essere concentrata, però, sull’ormai evidente intreccio corruttore rivelato, prima dalle indagini sulla caserma dei carabinieri a Firenze, poi dalle inchieste sulla Protezione civile e probabilmente confermato da altri possibili futuri coinvolgimenti illustri: il rapporto, chiuso e autoreferenziale, tra imprenditori e settori delicati dell’amministrazione dello Stato.

Si è ormai intuito che, con l’alibi di una riservatezza necessaria per alcuni lavori che riguardano il ministero dell’Interno, della Difesa, della Protezione civile, ma anche di altri dicasteri, si è creato un nucleo solido di interessi convergenti tra costruttori e politici nel quale spariscono i confini tra pubblico e privato. Un ambito, protetto e oscuro, dove ci si può, più o meno legittimamente, sottrarre ai due obblighi fondamentali del mercato. Il primo riguarda la concorrenza, con il corollario che impone la rima obbligata, la trasparenza. Il secondo tocca il sistema dei controlli amministrativi, a partire da quello della Corte dei conti.

E’ all’interno di questo mondo impermeabile a sguardi estranei che si costruisce un sistema e si consolida una mentalità. I magistrati hanno definito questo circolo chiuso di affaristi «una cricca». Il termine è efficace perché ben illumina l’aspetto di consorteria ristretta dei protagonisti e anche la ripetitività di reati compiuti nelle stesse forme. Ma non riesce a spiegare fino in fondo i motivi della peculiare sensazione di impunità e di onnipotenza che inebria costruttori e politici, quel misto di presunzione arrogante e nello stesso tempo ingenua che finisce per travolgere ogni prudenza e ogni limite di opportunità.

Nel tempo, con la consuetudine di frequentazioni amicali, diventa normale, infatti, rivolgersi a chi ristruttura i locali del ministero anche per aggiustare gli infissi di casa propria. Diventa normale chiedere a chi ha vinto l’appalto indetto dal dicastero che si dirige anche l’aiuto per acquistare una casa a prezzo ultrascontato. Diventa normale confessare al telefonino affarucci e affaracci, sicuri di una immunità riservata a imprenditori «speciali». Ma diventa anche normale e persino comprensibile la sorpresa quando la segretezza viene violata e diviene altrettanto comprensibile un atteggiamento altrimenti sconcertante: la pretesa di convincere l’opinione pubblica dell’assolutamente improbabile e il distacco da una realtà che i cittadini comuni conoscono a memoria e che, invece, in quel mondo, è così lontana da giustificare qualsiasi romanzesca versione dei fatti. In attesa di apprendere le prossime rivelazioni, armati di un serio garantismo ma non di una sciocca credulità, è urgente smantellare, al più presto e col massimo rigore, questo intreccio pubblico-privato di affarismo «riservato». Come diceva Bobbio, la democrazia non ama il buio.

La Stampa 05.05.10