economia, lavoro, partito democratico

«Pd attento, il liberismo ha fallito», di Cesare Damiano

La crisi economica, che ha colpito duramente l’Italia e che ancora non è stata superata, impone al Pd di indicare chiare scelte di prospettiva.
La ripresa lenta confermata nei giorni scorsi dall’Ue, che ha rivisto al ribasso le stime di crescita per il nostro paese e la fragilità dei conti pubblici, gravati da un debito destinato a salire nei prossimi anni oltre il 115,9 per cento del 2009, richiederanno interventi di risanamento. La situazione internazionale non aiuta. La Grecia sull’orlo della bancarotta, il Portogallo, la Spagna e l’Irlanda declassate, l’euro in forte discesa, le Borse in picchiata, impongono di avere bilanci pubblici maggiormente in ordine.
Risanare si deve. Ma si deve anche riflettere, in Italia come nel resto d’Europa, sui rischi futuri indotti dalle scelte da compiere. Non vorrei che, sulla scorta di questa drammatica situazione, mentre servono riforme incisive per dare regole certe ai mercati e per reprimere la speculazione, si finisse col proporre le solite ricette “lacrime e sangue” che colpiscono i soliti noti: lavoratori a reddito fisso e pensionati, giovani in cerca di occupazione e precari, donne e disoccupati.
La Commissione Ue ha adottato una linea di condotta che, nel richiedere il giusto risanamento dei conti pubblici, ritorna sulle ricette di sempre. Col rischio, per usare un eufemismo, che per preservare i saldi di bilancio si finisca per indirizzare i tagli sulla spesa sociale.
Alzare l’età pensionabile, proporre un fisco a due aliquote, cancellare o limitare la protezione dell’articolo 18 e introdurre le cosiddette “gabbie salariali”, come molti commentatori, politici ed economisti vanno proponendo da qualche tempo a questa parte, non è certo la giusta terapia di cui l’Italia ha bisogno. Sarebbe, paradossalmente, il trionfo delle vecchie ricette del neoliberismo riproposte proprio nel momento in cui il neoliberismo ci ha regalato una crisi, prima finanziaria, poi economica e sociale, senza precedenti.
Uscire dalle crisi, o prevenirle, vuole anche dire redistribuire le risorse, difendere i più deboli, creare uno stato sociale più efficiente, favorire i consumi, sostenere le imprese che intendono investire e creare nuova occupazione.
Significa, rispetto alle scelte del governo attuale, invertire la rotta. Perché – per fare un esempio – non parlare delle rendite finanziarie? Perché dire no a un temporaneo e parziale inasprimento fiscale a carico dei redditi più alti per finanziare strumenti importanti del welfare, come il prolungamento della durata della cassa integrazione in un periodo di crisi profonda, dopo aver polverizzato miliardi cancellando l’Ici a vantaggio dei cittadini più ricchi? Perché non intervenire, con agevolazioni e incentivi, per favorire la stabilizzazione dei lavoratori precari? Perché non condurre una lotta senza quartiere all’evasione fiscale e al lavoro nero? Perché non mettere in campo una seria politica industriale? Perché non avere il coraggio di dire che il neoliberismo, con le sue teorie, ha fallito? Uscire dalla crisi significa anche fare una politica che, ignorando slogan e obiettivi demagogici, tenga conto dell’esperienza e del quadro normativo vigente. A cosa serve, ad esempio, evocare un innalzamento dell’età pensionabile se una legge che va, con gradualità, in questa direzione c’è già e se i conti degli enti previdenziali sono in equilibrio? A chi giova la riduzione delle aliquote se, come ci insegna l’esperienza, gli interventi operati nel passato dal centrodestra in questa direzione non si sono tradotti in un alleggerimento della pressione fiscale ed hanno invece favorito i redditi più elevati? Credo che su questi temi si debba discutere e che il Partito democratico debba prendere un orientamento preciso attraverso una discussione franca che metta a confronto le diverse opinioni esistenti. È sempre indipensabile ricercare pazientemente una sintesi ma, in mancanza di essa, è altrettanto necessario adottare anche decisioni di maggioranza. Indicare obiettivi generici non serve e non basta. È il tempo delle scelte chiare e concrete, alla ricerca di una sintesi.

da Europa, 7 maggio 2010