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"I giorni terribili dell'attacco all'euro", di Eugenio Scalfari

Due giorni terribili e una terribile nottata tra i capi dei governi europei, mentre crollavano le Borse di tutto il continente e Wall Street addirittura precipitava di mille punti in pochi minuti. Un errore umano? Molto peggio: l’errore umano aveva messo in moto le tecnologie computerizzate che avevano trasmesso l’ordine di vendere a tutti gli operatori collegati in rete. Così la tecnologia amplifica e soverchia le manchevolezze degli umani, dei quali sempre più spesso diventa padrona.
Quei minuti di panico si sono tuttavia protratti per tutta la giornata sulle due sponde dell’Atlantico; la riunione dei leader europei è durata otto ore, con lo spettro di che cosa potrà accadere lunedì alla riapertura dei mercati.

Lo spettro dell’affondamento dell’euro ha dato loro il coraggio che fin qui gli era
mancato. Soprattutto era mancato ad Angela Merkel, cioè alla Germania e alla Bundesbank che ne rappresenta il cuore monetario, ancora nostalgico del marco, abbandonato in favore della concezione europeistica di Kohl. C’è voluto un intervento diretto di Barack Obama sulla cancelliera della Germania federale per farle comprendere che la fase dei “se” e dei “ma” doveva essere superata e che non era più questione di giorni ma di ore se non addirittura di minuti per prendere le decisioni necessarie. Si vedrà domani se i mercati si stabilizzeranno e se la speculazione concederà alla politica una pausa di respiro.

I provvedimenti decisi dal vertice europeo sono stati, finalmente, all’altezza della sfida: la disponibilità della Bce, ovviamente con decisione autonoma, ad acquistare i titoli di Stato dei Paesi sotto attacco e la decisione della Commissione di Bruxelles di mobilitare 70 miliardi di euro accantonati nel bilancio dell’Unione per far fronte alle calamità naturali e usarli invece per prestiti immediati ai Paesi in difficoltà.
La frustata che gli speculatori hanno dato ai governi li ha finalmente risvegliati dall’ipnosi e li costringerà a reagire?

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La novità delle ultime quarantott’ore è questa: i governi hanno capito che l’attacco della speculazione non è più soltanto contro la Grecia. L’obiettivo è assai più alto, il dissesto dell’economia greca ne è stato soltanto il detonatore, ma ormai è chiaro quale sia il bersaglio: l’euro, la moneta unica europea, la tenuta del sistema europeo e la sua necessaria evoluzione politica. L’aveva già scritto qualche giorno fa Mario Pirani su queste pagine e l’ha detto giovedì scorso con chiarezza il ministro Tremonti alla Camera. C’erano solo cinquantotto deputati ad ascoltarlo e quasi tutti dell’opposizione, il che non depone a favore della sensibilità europeistica del nostro Parlamento e sottolinea il suo inguaribile provincialismo.

A questo punto le domande che dobbiamo porci sono tre: perché la speculazione attacca l’Europa, le sue Borse, la sua moneta? Quali sono, tecnicamente e politicamente, i punti deboli dell’Unione europea? Quali sono le terapie necessarie per difenderci? Possiamo aggiungere anche una quarta domanda: chi sono gli speculatori? È mai possibile che abbiano tanti mezzi e tanto coraggio da partire in battaglia contro una struttura di dimensioni continentali che coincide con l’area più ricca del mondo?

Questa quarta domanda è preliminare alle altre e va dunque affrontata per prima. La speculazione non è formata da un gruppo di operatori che si consultano tra loro e mobilitano i loro capitali per influenzare i mercati e trarre profitto dalle loro oscillazioni. La speculazione è un sinonimo del mercato. La speculazione è il mercato. Il mercato consiste in un luogo organizzato dove si registrano – attraverso la domanda e l’offerta – le aspettative di un’immensa massa di risparmiatori. La speculazione dunque non è altro che l’aspettativa che si forma liberamente, sulla base di libere valutazioni delle forze in campo.

La crisi di due anni fa partì dalla bolla immobiliare americana e si propagò con la velocità del fulmine in tutto il mondo. Fu la prima vera prova della globalizzazione finanziaria. Si confrontarono le aspettative ribassiste e deflazionistiche con la risposta dei governi, a cominciare da quello americano. I governi riuscirono a gestire la crisi e a controllare le aspettative ma pagarono un prezzo altissimo: dovettero iniettare sul mercato migliaia di miliardi di liquidità accumulando debiti immensi. Sono stati chiamati “debiti sovrani” e “fondi sovrani” sono stati chiamati gli enti preposti alla loro gestione.

L’uscita dalla crisi prevede che i debiti sovrani siano riassorbiti gradualmente ma in un periodo relativamente breve di tre o quattro anni. Ogni sistema, ogni fondo sovrano effettuerà l’operazione di assestamento secondo i propri mezzi e le proprie scelte; l’inflazione sarà inevitabilmente una scelta comune, non facile da guidare e difficilissima da far accettare alle pubbliche opinioni. Ma ancora più difficile sarà l’assestamento basato sul taglio di spese, inasprimento di imposte, disagio sociale. Il caso greco ne è la più lampante dimostrazione anche perché è maturato su un terreno politicamente e socialmente friabilissimo.
Adesso è la volta dell’Unione europea, la crisi si è concentrata su quell’obiettivo. Come ha ricordato Tremonti, la parola crisi in greco significa discontinuità.

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Perché la speculazione attacca la moneta europea, le sue Borse, le sue banche? La risposta è semplice: la speculazione attacca i fondi sovrani europei, cioè la struttura finanziaria dell’Unione attraverso gli Stati che la compongono e cerca di colpire la stessa Banca centrale europea, cioè il cuore dell’Unione, il solo ente veramente autonomo e veramente federale che gli Stati abbiano finora saputo esprimere.
La speculazione, cioè l’insieme delle forze che operano nei mercati internazionali, sa da tempo che la Bce è la sola Banca centrale esistente che non abbia alle sue spalle uno Stato sovrano. Questa situazione le conferisce il massimo di indipendenza, ma al tempo stesso il massimo di solitudine e di fragilità. La politica monetaria è interamente nelle mani della Bce e di conseguenza sono di sua esclusiva spettanza la quantità di moneta in circolazione, il tasso ufficiale di sconto, le operazioni di mercato aperto.

Ma gli Stati membri mantengono il completo dominio delle rispettive politiche di bilancio, delle rispettive politiche fiscali, della spesa pubblica sia nazionale sia locale, degli incentivi, delle pubbliche retribuzioni, dell’organizzazione del “welfare”. I meccanismi di coordinamento sono blandi e nella maggioranza dei casi si risolvono in raccomandazioni. Il bilancio amministrato dalla Commissione di Bruxelles non ha alcuna vera flessibilità.

Insomma l’Europa è ancora lontanissima dall’essersi data una struttura federale e politiche comuni, anzi unificate, con massicci trasferimenti di sovranità dagli Stati nazionali allo Stato federale europeo nel campo della politica estera, di quella della difesa, dei diritti e dei doveri, delle elezioni parlamentati e del governo dell’Unione.
La speculazione conosce perfettamente questa situazione ed ha interesse a bloccare qualsiasi sviluppo dell’Unione verso un assetto federale. L’ideale per le forze di mercato è che esso sia regolato il meno possibile e che il potere economico, soprattutto nei suoi aspetti finanziari, sia il solo dominante nello spazio globale del pianeta.

Questa è dunque la posta, la quale tuttavia comporta anche una contro-indicazione: se gli Stati nazionali membri dell’Unione hanno chiaramente capito la pericolosità estrema dell’attacco, vorranno e sapranno elaborare una risposta che sia all’altezza della crisi? Vorranno affrontare il problema della sovranazionalità europea cedendo all’Unione la parte politica della loro sovranità? O si limiteranno a rendere più strette le maglie del coordinamento tra le loro politiche nazionali?

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La crisi in corso contiene dunque un pregio, l’abbiamo già detto: ha reso attuale e non oltre procrastinabile il tema dello Stato federale europeo. Purtroppo non sembra che l’evidenza e l’urgenza di risolverlo siano in grado di indurre le classi dirigenti e le opinioni pubbliche nazionali a varcare finalmente la soglia di un vero federalismo. Mancherà certamente il contributo della Gran Bretagna, ancora irretita dal mito anglosassone e dalla relazione speciale tra Londra e Washington.
Quanto agli Stati europei del continente, non sembra che dispongano di una visione europea unitaria. Una classe dirigente europea e un’opinione pubblica europea capaci di sospingerli e costringerli non esistono. Ci sono singoli individui e ristretti ambiti sociali minoritari, niente di più.

Se debbo esprimere un’opinione personale, credo che l’attacco in corso contro l’attuale sistema europeo si attenuerà nei prossimi giorni e nei prossimi mesi, ma non sarà affatto sgominato. Verrà contenuto, questo è probabile, ma preparerà ulteriori ondate. Voglio dire insomma che la crisi non è alle nostre spalle ma è ancora davanti a noi con tutta la sua terribilità.

da www.repubblica.it

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“La crisi che cambierà l’Europa”, di Franco Mosconi
Può un’economia che vale circa il 20 per cento del Pil mondiale, sgretolarsi a causa di indecisioni politiche? Può una moneta (l’euro), giunta in poco più di 10 anni a rappresentare un’alternativa al dollaro, perdere pezzi a causa della tragedia greca? Si vorrebbe poter rispondere di no ma la realtà, purtroppo, ci segnala che qualcosa di profondo – qui dalle nostre parti, in Europa – sta accadendo. E i tempi per la politica si sono fatti terribilmente brevi, dopo i tentennamenti di questi mesi.
Che la crisi della Grecia abbia una componente interna – domestica, se vogliamo – tutta sua è fuori discussione: il trucco nei conti, svelato all’atto dell’insediamento del nuovo governo in ottobre, è un fatto gravissimo, così come lo è un’ormai cronica incapacità di controllare la spesa pubblica. Non possiamo dimenticare, d’altro canto, che il dramma ellenico si iscrive nell’onda lunga della più grave crisi economica degli ultimi ottant’anni.
Mai crisi fu più funesta per le conseguenze generate dalla finanza sull’economia reale (che è fatta di imprese e lavoratori) e per le conseguenze dei comportamenti di pochi sui molti (i cittadini-consumatori).
Molto è stato scritto sulle cause del grande crack e sul parallelo con l’altra grande crisi, quella del ’29.
Dovendo riassumere, possiamo dire che: primo, molte società – a cominciare da quella americana – hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi; secondo, un po’ dappertutto nel mondo la scarsità della domanda ha prodotto – per dirla col premio Nobel Krugman – “il ritorno dell’economia della depressione” (da qui la necessità di ricordarsi della “sintesi keynesiana”).
La domanda d’obbligo è: le politiche messe in atto dai singoli paesi e/o dalle istituzioni internazionali hanno aggredito alla radice le cause del crack? E qual è stato il ruolo giocato dall’Ue? Il quadro appare tutt’altro che roseo. Beninteso, passi in avanti nell’elaborazione e implementazione di nuove regole per disciplinare i mercati finanziari internazionali sono stati fatti; ma sarebbe oggettivamente troppo spingersi a dire che, qui e ora, siamo di fronte a una nuova governance a livello internazionale.
Manca ancor’ora – per venire più direttamente all’Europa e alla zona dell’Euro – una “Agenzia della Uem per la supervisione bancaria e finanziaria”, lungo le linee proposte da Alberto Quadrio Curzio (Corriere della Sera, 4 maggio).
Anche sotto il profilo dei “pacchetti di stimolo fiscale” non sono certo mancate, a partire dall’autunno 2008, le azioni dei singoli governi nazionali, in primis quelli del G 20. Ma, come ha ampiamente dimostrato il Fmi nei suoi report, si è trattato di pacchetti eminentemente nazionali, assai diversi per dimensione (dallo “zero virgola” al 2 per cento del Pil). Quando poi l’Ue approvava, a fine novembre 2008, il suo “Recovery Plan” sembrò, di primo acchito, una manovra di bilancio consistente (200 miliardi di euro); tuttavia, l’analisi più approfondita della sua composizione (170 miliardi come semplice sommatoria dei piani nazionali) svelò la sua intrinseca debolezza (e sarebbe interessante sapere la forma che hanno preso i 30 miliardi di fonte comunitaria).
Non sorprende, dunque, che messi di fronte, un anno dopo, a uno dei peggiori effetti collaterali della grande crisi (la tragedia greca, appunto), i Ventisette non abbiano saputo reagire: non v’è stata, in loro, né passione né prontezza. E questo è un vero peccato, molto più che d’omissione, giacché in gioco è la stessa costruzione europea, che poggia sul mercato interno e sulla moneta unica.
Alla fine – e siamo alla cronaca degli ultimissimi giorni – un piano di aiuti per la Grecia, messo a punto congiuntamente da Ue, Eurogruppo e Fmi, è arrivato; contestualmente, altre novità positive sono arrivate da Francoforte ove la Bce ha deciso di continuare ad accettare in garanzia i titoli greci, benché declassati.
È già partita la gara (la scommessa?) per valutare la congruità dei fondi messi a disposizione del governo Papandreou (oltre 100 miliardi in due-tre anni) in cambio di un severissimo piano di risanamento.
C’è, in verità, un’altra domanda che dovrebbe dominare il dibattito: il già fatto è tutto quello che i paesi dell’Ue (e dell’Area euro) sanno esprimere per custodire la casa europea? Oppure è nel da farsi che possiamo rintracciare alcuni nuovi motivi di speranza? Si apre qui la pagina della leadership europea e, giocoforza, del ruolo che nella Ue riveste la Germania della signora Merkel: «Nulla verrà fatto senza o contro la volontà della Germania», ha detto il Cancelliere parlando nei giorni scorsi al Bundestag per presentare e far approvare il piano di aiuti per la Grecia. Rientra nel novero delle buone notizie? Pensiamo di sì, pur con tutti i pesi e contrappesi del caso: non di poco conto, com’è sempre stato nei momenti cruciali dell’integrazione europea, potrà essere il ruolo dell’Italia.
La necessità di una soluzione al problema del deficit e del debito della Grecia era un tema già caldo molte settimane fa: è del 23 marzo, per fare un esempio, un editoriale del New York Times dal significativo titolo “European Disunion” nel quale si stigmatizzava la contrarietà della Germania a una soluzione condivisa a livello europeo. Si parla tanto in questi giorni di una certa parte degli Usa che giocherebbe contro l’Euro e l’Ue: non sembra questo il caso del grande quotidiano newyorkese, che proseguendo la sua analisi suggeriva alla signora Merkel di agire a favore della causa europea, a somiglianza di quanto avevano fatto i suoi predecessori nel passato: “E l’Ue – era la conclusione – è stata più forte a causa di ciò”.
Si sono perse settimane preziose, ma alla fine la decisione è arrivata. Ora, di fronte ai tumulti di piazza ad Atene, ai lutti che già contiamo e di fronte agli sconquassi sui mercati borsistici e monetari cui assistiamo tutti i giorni, non è più il caso di contemplare l’esistente. Ci sono tante cose da fare per uscire dallo status quo. Pensiamo soprattutto a una politica economica comune fra i paesi che già condividono quella monetaria e, dunque, a grandi questioni quali: la riforma del Patto di stabilità e di crescita; il finanziamento delle infrastrutture europee mediante l’emissione di Eurobond; la riforma del budget dell’Ue; la nascita di uno strumento che molti chiamano il Fondo monetario europeo. Se ne prenda una, di queste possibili riforme, e la si approvi.
da www.europaquotidiano.it