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"Controriforma, così i ricercatori perderanno la voce", di Rino Falcone*

Negli ultimi tempi sta emergendo con forza e su differenti ambiti della vita del Paese il tema dell’autonomia. Su un primo fronte, con spericolati argomenti, si aggrediscono autonomie fondamentali come quelle che tutelano la funzione della magistratura e dei mezzi di comunicazione di massa. Su un altro fronte si dibatte del percorso politico, istituzionale e finanziario che dovrà portare all’effettiva applicazione del federalismo nel nostro Paese. L’attenzione sembra riguardare il costo dell’operazione, ma anche qui il nodo è l’autonomia. Questa volta però il Governo sembra mosso da una volontà d’ampliamento degli spazi autonomi e non sembra molto preoccupato della necessità di adeguare contropoteri d’equilibrio e responsabilità (come mostrato nelle polemiche recenti sui beni demaniali da affidare ai Comuni e ai rischi per la loro tutela). Molto interessante, poi, il caso del nuovo modo di concepire l’autonomia dell’Università e delle Istituzioni di alta cultura e ricerca. La riforma universitaria Gelmini riduce significativamente l’autonomia introdotta in passato, trasformando tra l’altro ilCdA in un organo di governo partecipato per almeno il 40% da esterni all’Ateneo. Ancora più inverosimile appare il modo in cui si sta procedendo alla realizzazione degli statuti autonomi degli Enti di Ricerca (Cnr, Inaf, Ingv, etc.). Questi statuti che, previsti da una legge del precedente Governo, dovrebbero finalmente rispondere al dettato costituzionale di dare ordinamenti autonomi agli Enti di Ricerca (che vivono di essenziali spazi di libertà), verranno in definitiva realizzati da organismi in cui non sarà presente alcun ricercatore degli Enti. Proprio così: nessun ricercatore degli Enti farà parte dei gruppi che realizzeranno gli “statuti autonomi”! E li chiameranno autonomi! Questo per il combinato disposto di due azioni del ministro Gelmini: primo, una modifica alla vecchia legge per attribuire ai CdA (invece che ai Consigli Scientifici, dove tali ricercatori sono presenti) la competenza di realizzazione degli statuti; secondo, l’aver nominato per ogni Ente i 5 membri aggiuntivi (che dovranno integrare il CdA in questo compito) fuori da queste comunità. Un caso in cui l’autonomia è intesa riguardare gli organi di governo (legati a nomine esterne, in maggioranza dalla politica) e non le comunità che vi appartengono. Una sorta di autonomia da dare a propri fidatari. Tre autonomie, tre differenti modi di concepirle a seconda degli scopi che si perseguono. Il rischio è di immiserire la complessità del buon funzionamento delle istituzioni, stravolgendo il senso di concetti fondamentali come autonomia, responsabilità e partecipazione che meriterebbero un più ampio spazio di riflessione politica, a cui lo stesso centro-sinistra sarebbe bene non si sottraesse.

*Ricercatore CNR – Osservatorio sulla ricerca

L’Unità 20.05.10