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"Biodiversità missione possibile", di Mario Tozzi

Se la sono vista brutta, gli elefanti africani, fino a qualche decennio fa: ridotti in areali angusti, decimati dai bracconieri per via dell’avorio delle zanne e assassinati dai ricchi signorotti occidentali in cerca di emozioni (si fa per dire) forti. Ma se avessimo visto nella giusta luce questi straordinari animali forse ci saremmo comportati diversamente: gli elefanti festeggiano le nascite e piangono i morti, riconoscono gli individui della loro specie anche a distanza di anni, posseggono una proboscide con 10.000 muscoli e un milione di nervi (da esserne orgogliosi almeno quanto la nostra mano) e hanno strategie sociali sofisticate, tanto che nelle arene dei Romani cadevano sempre per ultimi, grazie a come si difendevano in gruppo.

Un successo evolutivo, una ricchezza della vita sulla Terra che abbiamo rischiato di distruggere e che è, invece, oggi sulla via della conservazione, perché abbiamo compiuto un passo indietro sul fronte della deforestazione, della caccia e dell’apertura di nuove vie di comunicazione. Né hanno passato tempi migliori i lupi negli Stati Uniti o le tigri in Siberia o gli orsi in Italia, per non parlare di quelli che non ce l’hanno fatta: il pinguino artico, il dodo delle Mauritius o, solo qualche anno fa, il delfino bianco dello Yangtze. Ma davvero dovrebbe interessarci qualcosa del fatto che un quarto delle specie dei mammiferi sia seriamente minacciato di sparire per sempre dalla faccia del pianeta? La giornata internazionale della biodiversità – cioè dell’insieme di tutti i viventi – mette brutalmente gli uomini moderni di fronte a un problema che li riguarda molto da vicino. Intanto, sebbene sia il «naturale fine» di ogni specie, l’estinzione dei viventi procede oggi a ritmi assai superiori a quelli che hanno preceduto ciascuna delle cinque grandi estinzioni di massa della storia biologica del pianeta.

E questo è un fatto nuovo. In secondo luogo, per la prima volta c’è una specie – la nostra – responsabile della crisi o dell’estinzione di tutte le altre: e anche questo non era mai accaduto prima. Le cause sono ben note, prima fra tutte la riduzione dell’habitat dei viventi non umani, generata dall’espansione incontrollata delle attività e degli insediamenti antropici. A che serve battersi per la sopravvivenza dell’orso marsicano se poi il suo territorio viene continuamente ridotto o degradato? Così il panda maggiore sarà solo un morto vivente, se non ne tuteliamo anche l’intero l’habitat naturale. Poi ci sono gli inquinamenti industriali, cui molte specie si adattano molto peggio dell’uomo, l’avvelenamento dei pesticidi usati in agricoltura, la caccia, decisamente priva di qualsiasi senso nel mondo moderno, e il surriscaldamento climatico in atto. Ma l’estinzione di una specie è una perdita irreparabile che ci riguarda da vicino: non solo perché, almeno ultimamente, ne siamo responsabili, ma anche perché l’impoverimento della biodiversità porta conseguenze negative soprattutto per l’umanità.

E sì, perché ignoranti o smemorati come siamo, non prendiamo in considerazione che molti medicinali, il cibo e perfino l’acqua o l’aria dipendono irrimediabilmente dalla ricchezza della vita: sono almeno 40.000 le specie di viventi da cui traiamo quei valori. L’Italia è il Paese europeo più ricco di biodiversità con 57.468 specie animali e 12.000 specie floristiche. Ma molto di questo patrimonio si sta perdendo: attualmente sono a rischio il 68% dei vertebrati terrestri, il 66% degli uccelli, il 64% dei mammiferi e l’88% dei pesci di acqua dolce. E’ però anche il Paese che consuma più territorio: ogni anno 250.000 ettari vengono ricoperti di asfalto o cemento, mentre, per dare un’idea, nel Regno Unito 10.000 (quanti la sola Sicilia). Così il nostro Paese si dota di una teorica Strategia nazionale sulla Biodiversità, mentre continua a tagliare risorse e finanziamenti nella pratica. Proteggere la natura restituendole spazio è l’unica strada, il resto è chiacchiera ipocrita che siamo francamente stanchi di sentire.

La Stampa 22.05.10