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"Una legge contro la Costituzione colpisce la nostra democrazia", di Liana Milella

Tutti i reati devono essere perseguiti e le intercettazioni devono essere impiegate ogni volta che è necessario. Il diritto di cercare, di diffondere e di ricevere le informazioni è fondamentale. Non si restringa questa libertà.
Sfoglia il codice di procedura penale, e si ferma all´articolo 266, quello che regola le intercettazioni. Lo legge, poi ragiona a voce alta: «Ma questo articolo non va bene così com´è? Ho perfino dei dubbi sull´opportunità di stabilire una lista di reati. E comunque qui c´è già tutto. Ma cosa si dovrebbe aggiungere?». Il presidente dei costituzionalisti italiani Valerio Onida, ex presidente della Consulta, boccia la stretta sulle intercettazioni e il bavaglio alla stampa.
Questa legge mette in pericolo la democrazia?
«Certamente le intercettazioni sono una misura che limita la libertà e la segretezza delle comunicazioni, garantita dall´articolo 15 della Costituzione. Vi è dunque senz´altro la necessità di apprestare, in attuazione dell´articolo 15, opportune garanzie di procedura e di sostanza per impedire il ricorso abusivo a quella che è comunque una limitazione di libertà. Si può combattere l´eccesso di ascolti o il ricorso a indagini cosiddette “a strascico”, cioè che non muovano da una notitia criminis ma vadano alla ricerca di eventuali reati (qui l´abuso non riguarderebbe tanto lo strumento delle intercettazioni, quanto la stessa apertura dell´indagine). Ma la risposta non può consistere in un´irragionevole limitazione della possibilità di ricorrere a questo mezzo di indagine. Tutti i reati devono essere perseguiti, e lo strumento delle intercettazioni deve poter essere impiegato dagli organi dell´accusa, con le dovute garanzie, tutte le volte che concretamente sia necessario».
I limiti imposti dalla legge sono inaccettabili?
«Gli abusi vanno combattuti stabilendo le opportune garanzie. Alcune di quelle che qui si vorrebbero introdurre mi paiono però tali da ostacolare irragionevolmente le indagini, come l´autorizzazione demandata al tribunale collegiale del capoluogo di distretto, che rischia di risolversi in un appesantimento eccessivo per la macchina della giustizia. Se Lodi o Varese devono chiedere il permesso a Milano per mettere un telefono sotto controllo, mi pare che l´aggravamento sarebbe irragionevole. La decisione di un organo giudiziario nell´ambito dello stesso tribunale presso cui opera la procura competente dovrebbe bastare. E ho il dubbio che anche attribuire sempre la competenza a un collegio anziché al gip possa dar luogo a grandi difficoltà organizzative. Piuttosto vedrei meglio, oltre ad un rigoroso controllo del giudice chiamato ad autorizzare motivatamente l´intercettazione, uno del capo della procura per evitare iniziative anomale di singoli sostituti».
I poliziotti protestano contro la durata breve anche per reati gravi. È un vulnus all´obbligatorietà dell´azione penale?
«Non so se 75 giorni siano troppi o troppo pochi. Il problema non è tanto la durata delle intercettazioni, quanto quella delle indagini preliminari, che secondo me dovrebbe essere il più possibile contenuta, per evitare indagini lunghissime e magari molto pubblicizzate dalla stampa, a cui poi non fanno seguito celermente i processi con i relativi accertamenti giudiziali, o che sfociano in processi vanificati alla fine dalla prescrizione».
Qual è il colpo più duro alla Costituzione?
«Sarebbe grave limitare i tipi di reati che ammettono il ricorso alle intercettazioni, perché si tratta di uno strumento di indagine la cui necessità va valutata in concreto. Non si dovrebbero poi limitare eccessivamente i presupposti che giustificano il ricorso agli ascolti, come quando si proponeva di richiedere “evidenti indizi di colpevolezza”, proprio perché esse servono per verificare se alla base di una notitia criminis c´è un fondamento».
Il governo, per i “no” di Fini e del Colle, sarà costretto a cambiare il testo. Che consigli gli darebbe?
«Eviterei di restringere l´elenco dei reati e di limitare ulteriormente i presupposti per l´autorizzazione, che dev´essere data sulla base di un´attenta motivazione, e di appesantire troppo la procedura autorizzativa, magari prevedendo qualche controllo del capo della procura sulle iniziative dei singoli pm. Poi c´è il delicatissimo tema della pubblicabilità degli atti. Qui è in gioco un altro diritto costituzionalmente protetto, quello di informare e di essere informati».
La formula suggerita dai finiani, «di tali atti è sempre consentita la pubblicazione per riassunto» sanerebbe il vulnus?
«È incostituzionale prevedere un divieto di pubblicazione di notizie ed atti non più coperti da segreto. Se una notizia non è più coperta da alcun segreto ed è di interesse pubblico deve poter essere pubblicata. Naturalmente è necessario, per non ledere altri diritti, come quello all´onore e alla reputazione delle persone, rispettare i limiti consueti: veridicità, interesse pubblico, “continenza”, cioè modalità espositive corrette e non subdole. Ma il diritto di cercare, di diffondere e di ricevere le informazioni è fondamentale per la qualità della democrazia. Si può, certo, auspicare che gli operatori dell´informazione facciano con scrupolo il loro mestiere, sappiano andare alla ricerca delle informazioni rilevanti e verificarle, e non si trasformino in ricettori e diffusori di “materiali” non verificati, o privi di rilevanza pubblica e lesivi di diritti altrui (è anche un problema di costume). Ma non si può cancellare o restringere indebitamente la libertà di informare e di essere informati. Stabilire che non si può pubblicare nulla fino alla fine delle indagini preliminari colpirebbe gravemente queste libertà».
E quindi parlare di «riassunto» basterebbe?
«Non so se si possa distinguere bene, e se abbia senso distinguere, il “riassunto” dall´intero documento».
Come giudica il divieto totale di pubblicare le intercettazioni fino al processo?
«Trovo sbagliato e censurabile che certe ordinanze di custodia cautelare appaiano costruite riversando integralmente intere pagine di trascrizioni della polizia, anziché esponendo le risultanze degli indizi raccolti e le ragioni che inducono il giudice a disporre la misura. Ma la risposta non può essere il divieto di pubblicazione delle ordinanze medesime una volta che sono state emesse e rese pubbliche. Sarebbe incostituzionale».

La Repubblica 23.05.10