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"Con i tagli salta la ricerca, facoltà a rischio chiusura", di Benedetto Vecchi

I boatos sulla manovra economica hanno fatto irruzione ieri durante la presentazione del rapporto di AlmaLaurea sui laureati italiani dopo dieci anni di varo della riforma chiamata del 3+2. Per il presidente della Conferenza dei rettori Enrico Decleva il fondo ordinario destinato alle università italiane non sarà toccato. Gli fa eco, poco dopo, Andrea Lenzi del Cun, l’organo di autogoverno delle università, che chiede di mantenere alto il livello di attenzione, perché poco o nulla si conosce dei fondi destinati invece alla ricerca scientifica. Se ci dovesse essere una riduzione, sostiene Lenzi, molte facoltà scientifiche sarebbero a rischio, perché verrebbero meno i fondi per garantire il normale svolgimento dell’attività di ricerca.
Il clima generale è però all’insegna di un moderato ottimismo della ragione, perché i dati riguardanti i «figli della riforma» inducono a guardare con speranza il futuro dell’università, almeno dal punto di vista dei risultati.
È da oltre dieci anni, infatti, che AlmaLaurea fa un lavoro di monitoraggio su come sta cambiando l’«offerta formativa», il gradimento che ha presso gli studenti e quali esiti ha dal punto di vista dell’ingresso dei laureati nel mercato del lavoro. In questo rapporto i dati che emergono descrivono una situazione universitaria contraddittoria, con elementi acquisiti di «modernizzazione» e lacune ancora vistose. Andrea Cammelli, che di AlmaLaurea è presidente, illustra i dati sugli abbandoni scolastici, sull’età media dei laureati, sulla collaborazione degli atenei italiani con gli altri dell’Unione europea, dipingendo un quadro all’insegna di un moderato ottimismo. Ad esempio, la comparazione tra gli abbandoni scolastici del 2001 e quelli del 2009 fa emergere il fatto che sono diminuiti gli studenti che abbandonano l’università nei primi dodici mesi successivi all’iscrizione (dal 19,7 per cento del 2001 si è arrivati a un 17, 7 per cento nel 2009); che il numero dei laureati è cresciuto da 172 mila nel 2001 ai 293 mila del 2009. Quest’ultimo dato va comunque contestualizzato, avverte Cammelli, perché occorre distinguere tra lauree brevi e specialistiche: elaborando i dati a parità di anni trascorsi nell’università emerge il fatto che l’aumento è del 22,5 per cento.
Il problema, quando ci si trova di fronte a dei numeri, è però la loro interpretazione. L’Università italiana è sì profondamente cambiata in questi dieci anni, da quando cioè è stato avviato il cosiddetto Bologna Process, in base al quale l’università italiana doveva modernizzarsi se voleva stare al passo degli altri atenei europei. L’Italia scontava tuttavia un numero di laureati basso rispetto alla popolazione, che si accompagnava a una formazione di buon livello, ma poco aderenti ai cambiamenti che erano intervenuti nella società. Dunque il divario da colmare era profondo. Inoltre, la riforma ispirata ai principi del Bologna Process sperava in un forte investimento da parte delle imprese nella modernizzazione dei propri processi lavorativi e produttivi. Questo fattore non c’è stato, mentre a livello governativo – indipendentemente da chi sedeva a Palazzo Chigi, dunque senza nessuna significativa differenza tra governi di centro destra e di centro sinistra, ha ritenuto l’investimento nell’Università e nella ricerca scientifica un costo che poteva essere sacrificato sull’altare della logica del contenimento della spesa pubblica.
Non è certo nei compiti di AlmaLaurea mettere al centro del suo lavoro questi elementi, ma è indubbio che nel nel rapporto sulla «condizione occupazionale dei laureati» presentato lo scorso emerge, ad esempio, che il livello di retribuzione dei laureati è basso, mentre la precarietà fa sempre più rima con lavori «intellettuali». Per tornare al rapporto di questo anno, una frase di Andrea Cammelli suona come un segnale di allarme non solo per l’università, ma per tutta la realtà italiana. «In tempi di carestia, i contadini possono risparmiare su tutto, ma una cosa che non faranno mai è rinunciare a seminare». La formazione è cioè una risorsa strategica sia per garantire lo sviluppo in una situazione di forte concorrenza tra imprese e tra economie nazionali sia per uscire da una situazione di crisi economica, come quella attuale. E c’è da temere che la recessione attuale cancelli tutti i già timidi miglioramenti che ci sono stati.
Per i «figli della riforma» si preannunciano quindi tempi duri, anche alla luce del fatto che «la soglia educazionale» è cresciuta. Detto in altri termini, la crisi potrebbe far emergere una sorta di nuova divisione di classe tra i laureati. Chi proviene da situazioni sociali a redditi medio-bassi riuscirà magari a laurearsi, ma chi ha ha alle spalle una famiglia con redditi alti già accede a master tanto in Italia che all’estero. Con una conseguente entrata nel mercato del lavoro che rispecchia le perduranti divisioni di classe.

Il Manifesto 27.05.10