attualità, politica italiana

Il gelo degli imprenditori sul Cavaliere "dimezzato", di Alberto Statera

Il premier parla a una platea di «colleghi» imprenditori per la prima volta perplessi se non disincantati di fronte al suo pacato pallore oratorio. La manovra tremontiana è corretta, va bene per rallentare la spesa e arginare l´evasione «ma non basta», ha ripetuto come un mantra Emma, forse inconsapevolmente replicando il classico topos «benaltrista» del vecchio Partito comunista italiano («Ci vuole ben altro», risuonava spesso alla fine dei Comitati centrali) sullo sfondo del Politburo confindustriale nel quale per la prima volta, tra gli anziani, spiccava, l´esile figura del giovane John Elkann.
Come stanco del solito copione dell´ottimismo a tutti i costi, quasi spento, il premier ha «regalato» a Emma il discorso scritto e ha tentato quel che di solito gli viene meglio: la divagazione forte e spiazzante, capace fin qui di infiammare le conformiste platee confindustriali. Arrabbiato era arrabbiato, mentre Emma parlava, si agitava sulla sedia e sbuffava: ma che vogliono, gli abbiamo dato tutto, la manovra l´abbiamo fatta con loro. Ma stavolta è come se l´adrenalina l´avesse tradito o se la sintonia con una parte importante del suo popolo avesse subìto un improvviso vulnus ai tempi della crisi globale. La manovra di Tremonti nasce con la Confindustria, con la Cisl e la Uil, ma da imprenditore e da presidente del Consiglio – garantisce un premier terreo, ma composto e verbalmente misurato – so che «non basta».
Sottoscrive a malincuore il «nonbastismo» confindustriale. Per questo ha offerto a Emma il ministero delle Attività produttive, che Scajola ha dovuto lasciare travolto dalle imprese della Cricca. «Se la volete ministro alzate la mano». E qui si consuma forse, nel deserto di tre braccia timidamente sollevate in una sala popolata di tremila anime, la fine di un´epoca. Quella che da Vicenza in poi vide consessi frementi applaudire al tempo stesso critiche motivate e apodittiche affermazioni di inesistenti successi lanciate dal premier.
Gelo sul tavolo del Politburo, sguardo verso le scarpe in prima fila del governatore della Banca d´Italia Mario Draghi, che aveva applaudito ripetutamente la relazione marcegagliesca, mentre ironizza in milanese stretto Fedele Confalonieri. Si compiace per la generosa proposta presidenziale soltanto Paolo Scaroni, regnante sull´Eni, ma alla ricerca di nuova collocazione e forse, in qualche ambulacro dell´Auditorium, Paolo Romani, detto «il sottosegretario di famiglia», non solo per la cura delle televisioni, ma anche perché assessore al comune di Monza, dove si occupa della valorizzazione dei terreni della famiglia Berlusconi, il quale spera di succedere a Scajola.
Interessanti quelle tre isolate mani sollevate nell´immenso Auditorium mentre il premier decreta «allora non ve la potete prendere con quei poveracci che stanno al governo» e invita i presenti a leggere il libro «Il governo del fare». Il più evidente sobbalzo berlusconiano, braccio a braccio in prima fila con Luca Montezemolo, era stato quando la presidente, osando dubitare della mistica del fare, aveva scandito: «Se la maggioranza dovesse ridursi, per litigi e divisioni, all´impotenza si chiuderebbe nell´insuccesso la lunga promessa di una politica del fare». Per il resto erano scivolati via solo con qualche sbuffo di fastidio i cento «Non basta». Non bastano il rafforzamento del fondo di garanzia, la moratoria sui mutui, i tavoli con il sistema bancario, il fondo per la capitalizzazione delle piccole e medie imprese. Non basta mettere in ordine i conti pubblici senza riforme strutturali. Non bastano le liberalizzazioni nel commercio e nelle professioni, tema sul quale Emma evoca addirittura «un´opposizione dura», con la Confindustria che non esiterà a «mettersi di traverso». Non basta neanche la sforbiciata data ai costi della politica, «soltanto un buon inizio». E – figurarsi – non basta neanche lo pseudofederalismo tremontian-leghista. Emma comunque non va e non ha mai pensato per un momento di andare con Berlusconi. Perché i suoi non la lasciano, nonostante le frizioni interne nascoste con voti bulgari, o perché questo governo «non basta»?
E´ come se nella Sala Santa Cecilia l´antipolitica abbia cominciato a scalfire persino l´icona dell´imprenditore-politico che ne ha fatto il «teatrino» di tutte le nefandezze, proponendosi come l´alternativa imprenditoriale. In due ore di banali filmini amatoriali (ma quanti soldi hanno assorbito dei 506 milioni che costa ogni anno la burocrazia confindustriale?), di rievocazioni storiche del simpatico professor Valerio Castronovo, nei dieci minuti di pallida performance del premier deluso dal suo popolo d´elezione, l´unica vera ovazione è scattata quando la presidente ha detto: «La politica dà occupazione a troppa gente ed è l´unico settore che non conosce crisi o cassa integrazione». E subito ci ha collegato un appello: «Nessuna fornitura e appalto deve più avvenire senza una gara pubblica. Basta con lavori e commesse ad amici e compari a prezzi gonfiati». Difficile scorgere l´espressione del sottosegretario Gianni Letta, campione con Guido Bertolaso dei «Grandi eventi». Ma come sempre sarà stato sorridente e pensoso.
Presa dal «nonbastismo», Emma ha dismesso ieri il «qualchecosismo», come lo chiamava Francesco Saverio Nitti, riferendosi a quelli che comunque «bisogna fare qualcosa». A Berlusconi non è andata proprio giù. Ora si accettano scommesse sul solito convegno dei Giovani a Santa Margherita Ligure fra due settimane. Gira voce che ci sarà il presidente Giorgio Napolitano, ma che il presidente Berlusconi, deluso, diserterà i nipotini ingrati.

La Repubblica 28.05.10

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“Imprese, gelo su Berlusconi. Lui cita il Duce: non ho poteri”, di Bianca Di Giovanni

«Come vedreste Emma (marcegaglia, ndr) a darmi una mano al ministero dello Sviluppo? Come la prenderanno in Confindustria? Alzi la mano chi dice sì». Silvio Berlusconi vorrebbe tornare ai suoi toni eroici, fatti di battute e slogan sostenuti da boatti di approvazione, davanti all’assise annuale di Confindustria. Così davanti alla platea riunita all’Auditorium – quest’anno più «ricca » vista l’occasione dei cento anni dell’Associazione – tenta ancora la carta dello scherzo. Ma sono in pochi a ridere, e ancora meno quelli che rispondono al suo invito: solo un paio di mani alzate . La battuta è tutta fuori tempo: nella grande sala c’è un gelo imbarazzato. Gli imprenditori restano freddi durante tutto il suo intervento, in cui peraltro il premier mostra la corda più volte.
Offre di sé l’immagine di un uomo stanco («cara Emma, sono vecchio non riesco a seguire bene le immagini », esordisce), chiede aiuto («conoscete l’indirizzo di Palazzo Chigi, se qualche imprenditore vuole venire a darci una mano…»), sulla manovra ammette che «è difficile tagliare le spese». Tenta di replicare a quell’attacco sferzato senza esitazione dalla presidente degli industriali contro la (mala) politica, a quel verdetto senza appello che Marcegaglia emette. «Se la maggioranza dovesse ridursi, per litigi o divisioni, all’impotenza – aveva declamato la presidente – si chiuderebbe nell’insuccesso la lunga promessa di una politica del fare». Parole come lame acuminate, che sembrano presagire un fallimento politico complessivo del berlusconismo. E lui, in trincea a difendersi. «C’è qui Fini – dichiara facendo un cenno alla prima fila dove siede il presidente della Camera – e noi vi garantiamo che nei voti alla Camera la maggioranza sarà coesa». Qualche tempo fa sarebbe bastato un suo cenno, una sula parola: e forse neanche quella. Ma ora le imprese sono stanche. «Non incanta più» dice qualcuno. Soprattutto quando ripete i clichés ormai più che decennali. Come il «tradizionale: «Non potete prendervela con il governo. Noi siamo dei poveracci e abbiamo ereditato una situazione di decenni precedenti». La linea dell’irresponsabilità, dell’impossibilità a proseguire sulla strada del «governo del fare», delle mani legate. Stesso oerientamento espresso anche qualche ora più tardi a parigi. Citando Mussolini – «persona ritenuta un grande dittatore», si perita di specificare – Berlusconi dichiara: «Io non ho nessun potere, forse ce l’hanno i gerarchi, ma non io. Io posso solo decidere se far andare il mio cavallo a destra o a sinistra, ma niente altro ». Gli ostacoli al suo potere (assoluto) sarebbero tutti i dissenzienti: opposizione e soprattutto alleati non allineati. Nonostante tutto, tuttavia, il premier si ritiene ancora «in una posizione fortunata», sostiene, visto che ha ancora «il 60% dei consensi. In casa confindustriale non sembrava proprio. Marcegaglia approva l’ultima manovra («di Tremonti» dichiara), ma chiede di più. Invoca riforme strutturali e sferra un attacco frontale al mondo della politica, incassando l’applauso più lungo. «Diciamolo chiaro: la politica dà occupazione a troppa gente in Italia – declama – Ed è l’unico settore che non conosce né crisi, né cassa integrazione ». Il messaggio di fondo che parte dalle imprese punta dritto a un nuovo corso, ispirato alla concordia nazionale e sociale. Basta liti, basta contrapposizioni. Di fronte all’emergenza serve altro. Sul fronte del lavoro si chiede un patto allargato a tutte le forze in campo. «Serve una grande assise dell’Italia delle imprese e lavoro – dichiara Marcegaglia – Incontriamoci subito, entro l’estate, con l’obiettivo di una grande intesa per la crescita». L’appello è rivolto anche a chi non ha siglato l’ultimo accordo sul modello contrattuale: la Cgil. Senza il sindacato di Epifani è impossibile cambiare l’Italia – spiegano fonti interne alla struttura – per questo la presidente rivolge l’ennesimo invito a una nuova unità. Ma l’«abbraccio » invocato sul fronte del lavoro, ha il suo «omologo» politico. Quella presa di distanza dalle contrapposizioni spalanca la strada alle ipotesi del Palazzo su un futuribile governo di unità nazionale. «Davanti alle scelte difficili che dovremo compiere – aggiunge la presidente – non ricomincino i soliti giochetti. Dell’opposizione e di parti della maggioranza. Serve unità nazionale, senso del Paese, fare cose per il bene del Paese». I radicalismi sono banditi. Eppure dal tramonto del berlusconismo si salva proprio la sua anima più radicale. Quella leghista, a cui anche ieri le imprese hanno strizzato l’occhio

L’Unità 28.05.10