cultura

"Crimini nazisti: tagliare per dimenticare", di Alessandro Portelli

Hanno ragione Berlusconi e Tremonti: il Museo della Liberazione di via Tasso a Roma è un ente inutile, anzi dannoso. Dannoso, in primo luogo, per motivi sanitari e di immagine. Che figura ci facciamo, nel terzo millennio, a mettere un museo dentro un ex carcere (nazista), poco salubre perché le finestre sono ancora murate come le avevano lasciate Kappler e Priebke, e indecoroso perché non si è ancora provveduto a ripulire i muri dei graffiti lasciati dagli ospiti involontari che ci hanno trascorso mesi e giorni (spesso gli ultimi) della loro vita? Roba da terzo mondo, diranno all’estero.
E inutile. Il Museo della Liberazione non si vede mai in televisione.
Non dà appalti, non organizza Grandi Eventi, non offre ben retribuiti posti in consigli di amministrazione, non è lottizzato ai partiti politici e non distribuisce appetibili consulenze. Che esempio diamo ai giovani? Pensate che costa solo cinquantamila euro e ci lavorano tutti gratis meno il custode. Quasi immorale, si direbbe.
E ancora, dannoso perché coltiva argomenti sgradevoli di un passato sul quale sarà bene mettere una pietra sopra in nome del futuro, della riconciliazione e dell’ottimismo obbligatorio. L’ultima volta che ci sono stato, accompagnando studenti e docenti di un’università americana che non avevano la minima cognizione di che storia contemporanea avesse la città in cui si trovavano, ho visto che si sono fatti un’immagine di Roma poco turistica e poco consumistica. E questo non possiamo permetterlo. Certo, gli studenti americani e italiani di quel giorno (e le migliaia che ci passano nel corso dell’anno) sono anche venuti a sapere che in Italia c’erano persone di ogni idea politica e di ogni classe sociale che hanno pagato col carcere, con le torture e in tanti anche con la vita la loro volontà di essere liberi e di dire di no al potere. Un brutto esempio anche questo, per le giovani generazioni.
Non ne parliamo più, insomma. Nell’immediato dopoguerra, le vedove degli uomini uccisi alle Ardeatine giravano per Roma in gramaglie, in cerca di un modo per sopravvivere con le loro famiglie. In tante hanno raccontato che la città ne aveva pena, ma non se le voleva vedere intorno. Davano fastidio e danno fastidio ancora adesso perché, come via Tasso, ricordano il dolore e la sofferenza a un paese che ha il dovere di non vederli. A metà anni ’50, per non turbare le relazioni con la Germania nostra alleata nella guerra fredda, tutte le carte dei processi contro i criminali nazisti furono chiuse in un armadio che venne nascosto in uno scantinato; oggi si compie l’opera: con lo scopo dichiarato di «mettere fine alle tensioni nei rapporti internazionali», il governo azzera per decreto tutte le rivendicazioni che familiari delle vittime delle stragi e perseguitati dal nazismo hanno avanzato nei confronti del governo tedesco. Come se le tensioni con Angela Merkel e il suo governo riguardassero i quattro soldi di persone che hanno sofferto ferite terribili, e non poste in gioco assai più alte e problematiche. Davvero, l’ordine è stato eseguito, la pace è ristabilita, e regna il silenzio.
Sono tante le cose di cui non si parla più in questo paese. Le isole di autonomia nella televisione pubblica, gli enti (anch’essi «inutili») che svolgono riflessioni e proposte non subalterne in campo economico, e soprattutto la scuola che, dicono, meno ci stanno i ragazzi e meglio è.
Giustamente, si è parlato di un attacco alla memoria; ma quello a cui assistiamo è un attacco generalizzato all’intelligenza, alla conoscenza, al pensiero. Non ci sono poche decine di migliaia di euro per il Museo della Liberazione. Nel frattempo Roma si candida per le Olimpiadi del 2020. Se l’amministrazione cittadina avesse un minimo di spina dorsale non si limiterebbe alle parole, ma dovrebbe dire: i soldi ce li mettiamo noi. Perché senza il museo di via Tasso Roma non sarebbe la stessa. Ma forse è questo che vogliono.

Il Manifesto 28.05.10