attualità, politica italiana

"Molto più di un bavaglio", di Concita De Gregorio

Quel che sta accadendo in Italia è qualcosa che riguarda il mondo intero. Si sta scrivendo una legge che impedisce il lavoro d’indagine, che favorisce le mafie, che imbavaglia la stampa. Confinarla ad una sacrosanta rivendicazione del diritto di cronaca ed accontentarsi di qualche modifica in favore di editori e giornalisti è un errore. Non si tratta solo di mantenere intatta la possibilità di raccontare crimini e malaffare: si tratta prima ancora di non impedire il lavoro di chi indaga. Lasciare la libertà di parola e limitare gli strumenti di lotta al crimine otterrebbe alla fine lo stesso risultato: silenzio. E’ una legge che mette in pericolo il Paese che ci è stato consegnato da chi ci ha preceduto a prezzo di enormi sacrifici. Abbiamo il dovere di conservarlo per chi verrà dopo di noi, il dovere di disobbedire. Fate pure la vostra legge: noi non la rispetteremo.

L’Unità 29.05.10

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“Scommessa civile”, di Goffredo Fofi

È l’ora dell’impazienza, speriamo. Diceva Camus nell’Uomo in rivolta che è «con la perdita della pazienza (…) che comincia un movimento che può estendersi a tutto ciò che veniva precedentemente accettato». Ribadiva don Milani nella famosa Lettera ai cappellani militari sull’obiezione di coscienza, che i soldati «l’obiezione l’han conosciuta troppo poco, l’obbedienza, per disgrazia loro e del mondo, anche troppo». I soldati, i civili, i giornalisti… Questa era la legge, questi erano gli ordini, io non ho fatto che obbedire, assecondare, tacere: così si sono giustificati gli aguzzini del Terzo Reich e continuano a giustificarsi in tanti, nel mondo di oggi, trovando le mille scuse per non ascoltare la propria coscienza.

L’obbedienza non è più una virtù, insisteva il prete di Barbiana, sapendo bene che lo era stata e che avrebbe potuto tornare a esser tale, se intesa come obbedienza a una morale di cui si riconosce il valore, anche quando si incarna in una autorità e perfino in un gerarchia. Ma in questa società? Nella deriva del concetto stesso di responsabilità pubblica e di responsabilità privata nei confronti della collettività? Quanti possono dire di obbedire oggi a dei principi morali radicali – in una società che ha finito per sostituire la chiacchiera alla concretezza dell’azione? Gli esempi di disobbedienza civile nell’Italia berlusconiana sono rarissimi, quasi inesistenti e tante invece le scappatoie attraverso le quali il privato cittadino giustifica e accetta lo stato delle cose esistente, anche se magari gli fanno schifo. I maestri della disobbedienza civile, che è la versione morale della disobbedienza, i Thoreau Gandhi Capitini, hanno affermato che se una legge ci sembra ingiusta si ha il dovere di rifiutarla, di non accettarla, di disobbedirvi. Però non nascostamente o con la violenza, perché, insisteva Gandhi sulla scia di Thoreau, se una legge «è contemplata nei codici», i funzionari dello Stato devono farla applicare, ma se la mia coscienza mi dice che essa è ingiusta, «io devo resistere a essa in modo nonviolento» e si tratta allora di «violare la legge e di sottomettersi pacificamente all’arresto e all’imprigionamento». Disobbedire insomma non è un gioco, è un rischio. È la messa in campo di un principio di responsabilità dettato dalla mia coscienza e dalle mie persuasioni: per coerenza con i miei principi ma allo stesso tempo per compiere il mio dovere nei confronti della collettività, del suo presente e del suo futuro. (Consiglio a chi vuole avere un buon quadro delle ragioni, dei problemi e dei metodi della disobbedienza civile, il saggio di Thoreau con questo titolo edito dalla Bur e l’antologia delle Edizioni dell’asino Ribellarsi è giusto.)

La disobbedienza praticata dagli italiani oggi è raramente violenta, ma non è mai civile: cerchiamo astutamente di schivare le leggi, non le rispettiamo anche perché vediamo che a non rispettarle c’è in prima fila tutta la nostra classe dirigente, con gli eletti dal popolo, gli stessi funzionari dello Stato e perfino tanti magistrati. E allora: se tutti sono furbi e ladri (ma domani potrebbe anche essere: se tutti sono assassini o si fanno complici degli assassini) perché solo io non dovrei rubare?

Qua nessuno è fesso, si diceva in quella specie di capitale dei fessi che era ed è tornata a essere Napoli. È facile sentirsi nel giusto solo perché tutti sono nel torto, è facile gridare e denunciare e poi non far niente. È anche facile, per esempio nel caso di una legge disgustosa che imbavaglia l’informazione, chiedere una libertà alla quale non corrisponde una responsabilità, obiettare a una legge ingiusta ma guardarsi dall’obiettare ai diktat della pubblicità, delle banche, della proprietà dei giornali, dei suoi immediati rappresentanti i direttori.

La disobbedienza – e intendo chiaramente la disobbedienza civile – è una virtù delicata e che contempla molti rischi. Ma se non è questo il momento per affrontarli, allora quando? Le occasioni sono mille, e le risposte potrebbero essere tante, di singoli, di gruppi e perfino, nel caso dei giornalisti, di parti consistenti di una corporazione professionale che conta sempre meno perché si è lasciata condizionare dai poteri che hanno in mano i giornali e le tv, e insomma da chi paga. Per cominciare, si tratterebbe di dire no a questa legge scrivendo e dicendo ciò che una legge sommamente ingiusta non vuole che si dica, facendo quello che essa vieta di fare. Ma dovrebbe essere appena il primo passo, doveroso e rischioso, in un settore della società che non è certamente dei più limpidi. La disobbedienza deve diffondersi ad altri campi, e dev’essere, se vuol contribuire a modificare qualcosa, disobbedienza civile, sfida e scommessa civile a partire dal bisogno di pulizia, di onestà, di giustizia, di bellezza che è avvertito coscientemente da pochi ma forse, incoscientemente, da tanti, attraverso l’esempio e attraverso la lotta.

L’Unità 29.05.10