attualità, politica italiana

"Dall'emergenza al pasticcio", di Massimo Giannini

Vandalismo istituzionale, dilettantismo politico, avventurismo comunicazionale. C´è tutto il peggio possibile, nel cortocircuito innescato dal governo con il pacchetto-farsa da 24 miliardi che doveva scongiurare il rischio «di finire come la Grecia».
Tutto ciò che è accaduto e sta tuttora accadendo, tra il Quirinale, Palazzo Chigi e Via XX settembre, è un inedito assoluto e allucinante nella storia repubblicana. Non si era mai visto un decreto legge approvato «salvo intese» il martedì, che balla fino a venerdì tra misure che entrano nel testo la mattina e escono la sera, indiscrezioni su tagli di spesa che trovi scritte di giorno e scompaiono di notte: misure e tagli che incidono sulla carne viva di milioni di persone, perché riguardano i loro stipendi, le loro pensioni, le loro liquidazioni. Non si era mai visto un provvedimento «urgente» che viene inoltrato alla presidenza della Repubblica solo il sabato, accompagnato dall´ennesimo sbrego costituzionale inferto dal premier, che parla strumentalmente di un testo da lui non ancora firmato «in attesa del parere del Colle»: anche l´ultimo degli studenti di giurisprudenza sa bene che i decreti legge arrivano con la firma obbligatoria del presidente del Consiglio al Capo dello Stato, chiamato in causa dalla Costituzione per esaminarli e controfirmarli. Non si era mai visto un articolato-monstre, ritenuto «vitale» per tranquillizzare i mercati, così ricco di forzature tecnico-giuridiche e di contraddizioni normativo-contenutistiche da costringere il presidente della Repubblica a prendersi l´intero weekend per formulare i suoi rilievi e le sue osservazioni: con il risultato paradossale che oggi, alla riapertura dei mercati, l´Italia si presenta senza la manovra in Gazzetta ufficiale, e dunque ancora esposta alle incognite di un possibile lunedì nero per la sua Borsa e per il suo debito sovrano.
Questo masochistico autodafè non si può certo addebitare a Giorgio Napolitano. Il Capo dello Stato ha fatto solo il suo dovere. Il testo che gli è arrivato sul tavolo lo ha costretto a interventi di metodo e di merito, sulle materie più disparate che il decreto coinvolgeva e coinvolge: dal condono edilizio alle retribuzioni dei magistrati. Per non parlare del grottesco «taglio delle province», fantasma di un´opera buffa che il governo ha demagogicamente propagandato, ma poi non ha avuto la coerenza di mandare effettivamente in onda. Restavano in campo rilievi su altre due materie costituzionalmente sensibili: le risorse pubbliche disponibili per l´istruzione e la ricerca, e la difesa di enti culturali importanti per la conservazione della memoria storica di questa Repubblica. Oggi si capirà se il recepimento di questi rilievi da parte del governo è stato sufficiente o meno a soddisfare le modifiche richieste dal Quirinale.
Le colpe, mai come in questa occasione, sono tutte interne al governo. Un governo che non ha saputo spiegare al Paese il perché di una manovra così improvvisa e pesante, varata in tre giorni, senza nessuna verifica preventiva sulle necessità politiche interne alla maggioranza e sulle compatibilità economiche interne al bilancio. Un governo che annaspa nel vuoto, precipitando nell´ormai palese frattura tra Giulio Tremonti da una parte e il resto dei ministri dall´altra, con un Berlusconi del tutto incapace di fare sintesi. A sua volta stinto e sbiadito in un caleidoscopio di immagini, dove appare di volta in volta ora come «commissario» del gabinetto di guerra, ora come «commissariato» dal superministro del Tesoro. Ormai non è più tempo di retroscena giornalistici, ipocritamente smentiti nelle conferenze stampa di regime. Ormai il conflitto è sulla scena, e i protagonisti lo combattono in campo aperto. Non più solo Berlusconi e Tremonti, ma persino il cardinalizio Letta e il quieto Bondi sono lì, a battagliare nel tutti contro tutti di queste ore. Il sottosegretario di Palazzo Chigi come unico referente nella trattativa con il Colle, dalla quale viene tagliato fuori proprio Tremonti. Il ministro della Cultura come inusuale capofila dell´ala forzista e finiana che non ne può più dello strapotere di quello che fu, fino a poche settimane fa, l´intoccabile «Giulietto dei miracoli».
Siamo davvero ai limiti della legalità costituzionale, e ben oltre quelli della decenza politica. E in questo spettacolo inverecondo offerto non solo all´opinione pubblica nazionale, ma all´intera comunità internazionale, si dilapida anche l´unica «qualità» riconoscibile di questa manovra, cioè la sua apparente «quantità».
Fino a martedì scorso avevamo il dubbio che i 24 miliardi previsti, per l´iniquità dei sacrifici, l´episodicità dei risparmi di spesa e l´aleatorietà dell´evasione recuperata, non bastassero a mettere l´Italia al sicuro. Ora ne abbiamo l´assoluta certezza.
Purtroppo, davanti a questa vergogna la Commissione europea e gli operatori di mercato avranno buon gioco a non fidarsi di un governo tanto confuso e diviso.
Parafrasando Mussolini, il Cavaliere si è lamentato perché «non ha potere». Con tutta evidenza, il problema dell´Italia è che invece il potere ce l´ha eccome, ma sa usarlo solo per interessi personali, mai per quelli nazionali.

La Repubblica 31.05.10