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«Chi evade fa male anche a te: digli di smettere», di Luca Paolazzi

Chi evade le tasse mette le mani nelle tue tasche. Occorre farlo smettere. Lo stesso vale per chi quel comportamento permette, avendo invece i poteri tecnici e il dovere politico per fermarlo. Tanto più che i danni provocati dall’evasione sono ben più ampi di quelli contabilizzabili come minori entrate nel bilancio pubblico. L’evasione fiscale, infatti, sintetizza e aggrava mali italiani antichi e nuovi. Mali economici, sociali, istituzionali, civili.

Tra i mali economici, l’evasione produce aliquote più elevate e per questa via contribuisce a diminuire il dinamismo dell’economia italiana. Aliquote più alte, infatti, penalizzano le imprese che crescono, si internazionalizzano e si dotano di un patrimonio adeguato (in ciò l’evasione favorisce il nanismo aziendale). Sottraggono potere d’acquisto alle famiglie dei lavoratori di quelle imprese, i più produttivi, che così si ritrovano sottopagati, con misere retribuzioni nette, giacché il costo del loro lavoro è il doppio di quanto si portino a casa. Scoraggiano gli investimenti, anche dall’estero. L’evasione è quindi nemica della produttività e della competitività.

Tra i mali sociali spicca il premio alla scorrettezza anziché al merito: non è un caso che in Italia la quota di reddito evaso è massima nelle regioni con più basso capitale sociale. Inoltre, l’evasione impedisce di calibrare gli interventi di welfare a favore dei più deboli, interventi che spesso finiscono per beneficiare chi non assolve ai doveri di cittadino (altro furto odioso); basta pensare alle tasse universitarie o alle graduatorie per i posti all’asilo nido, stabilite in base al reddito dichiarato. Tra i mali istituzionali esaltati dall’evasione c’è l’inefficienza della burocrazia: solo una macchina amministrativa ben organizzata e guidata può individuare gli evasori senza perseguitare stoltamente i contribuenti onesti. Tra i mali civili c’è un rapporto cittadino-stato che, da entrambi i lati, è improntato alla diffidenza, se non all’aperta inimicizia; e ci sono un individualismo esasperato e una sfiducia nel prossimo che si traducono in opportunismo a scapito del vantaggio collettivo, cioè di tutti e quindi di ciascuno.

Estirpare l’evasione, o almeno ricondurla ai livelli fisiologici degli altri paesi, significa curare quei mali e guarirne. Così inquadrata l’impresa appare lunga. Troppo rispetto all’urgenza di rilanciare la crescita. Eppure nessuno può più eluderla, così come non è più tollerabile la corruzione.

La crisi catalizza cambiamenti strutturali, perché le enormi difficoltà costringono a prendere coscienza e sbarazzarsi degli ostacoli, ideologici o di bassa bottega, che si frappongono alla modernizzazione. E coagula nuove maggioranze. In questo contesto, i risultati arrivano molto rapidamente, addirittura con un rovesciamento della relazione causa-effetto: la riduzione dell’evasione passa attraverso le sanzioni certe ai comportamenti degli evasori e perciò conduce alla rimozione di quegli ostacoli, anziché esserne il frutto.

Lo fa con una forza e una velocità ben maggiori di quelli ottenibili con le pur sacrosante esortazioni morali che andavano di moda un tre anni fa (dopo molto meno). «Pagare le tasse è bellissimo», affermò l’allora ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa. «Non pagare le tasse è un peccato grave, è rubare», l’aveva preceduto il vescovo di Chieti-Vasto, monsignor Bruno Forte. Settimo: non evadere.

Il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, ha ripreso il filo spezzato della condanna etica al mancato pagamento delle imposte, associandolo alla criminalità. E ha voluto dare un importante contributo a formare l’opposizione politica contro l’evasione, additando i suoi protagonisti come responsabili della “macelleria sociale”, cioè dei tagli al welfare, e dell’accumulo dell’enorme debito pubblico.

La lotta all’evasione non può, però, portare all’aumento della pressione fiscale. Non deve servire a ridurre il deficit pubblico e piegare il debito (come invece accade con la finanziaria appena varata). Il risanamento dei conti pubblici, per non avvilire ancora una volta le enormi potenzialità di sviluppo dell’Italia, può far perno solo sulla riduzione della spesa.
Se vuole rilanciare la crescita, anche attraverso la maggior fiducia che viene dalla percezione dell’equità e dal rinnovo del contratto sociale che lega i cittadini all’interno di uno stato e li fa sentire comunità, la diminuzione dell’evasione deve risolversi in una restituzione. Via riduzione delle aliquote sui lavoratori e sulle imprese che le imposte le pagano.

Facciamo due conti, aiutati da alcune analisi condotte da Alessandro Fontana e Lorena Scaperrotta del Centro studi Confindustria e di prossima pubblicazione. Se consideriamo il Pil al netto del sommerso, cioè di quella parte dell’economia che viola gli obblighi fiscali e che quindi non dà il suo contributo al bilancio pubblico (pur godendo dei servizi pubblici: terzo furto), la pressione fiscale media effettiva calcolata sui dati 2009 è del 51,8%, contro il 43,2% ufficiale ma solo apparente perché viene dall’aritmetica divisione tra gli incassi tributari e contributivi e il Pil. Sconfiggere l’evasione senza abbattere le tasse per chi le paga vorrebbe dire avere una fiscalità svedese con servizi pubblici greci.

C’è chi ritiene che in realtà siamo tutti avvantaggiati dall’evasione, perché questa direttamente e indirettamente tiene più bassi i prezzi dei beni che acquistiamo. Perciò nemmeno se fosse accompagnata dall’abbattimento delle aliquote la sconfitta dell’evasione si risolverebbe in un miglioramento per gli onesti perché farebbe lievitare il costo della vita.
Ammesso, e per nulla concesso che ciò accada (la traslazione delle maggiori tasse pagate dipende da condizioni che non paiono far parte della realtà), comunque «l’eliminazione dell’evasione-più aliquote minori» farebbe cadere la distorsione nelle scelte dei contribuenti, livellando il terreno competitivo tra imprese tartassate ed evasori e rimettendo nel bilancio delle famiglie fiscalmente corrette il maltolto.

Di quanto potrebbero essere diminuite le aliquote? In media di quasi il 17 per cento. Ciò significa che a un lavoratore con una retribuzione-tipo resterebbero in busta paga quasi 1.300 euro in più all’anno, quasi una mensilità; mentre il costo per l’impresa di quello stesso lavoratore, tenuto conto anche dell’Irap, diminuirebbe di oltre 1.600 euro l’anno.
Con tutte le positive conseguenze in termini di potere d’acquisto, competitività, occupazione. Senza contare che anche le aliquote Iva e le accise, come tutte le altre imposte, potrebbero essere abbassate del 17% e ciò porterebbe una proporzionale diminuzione del costo della vita.

Una famiglia standard italiana (marito e moglie che lavorano e un figlio) risparmierebbe quasi settemila euro l’anno di pagamenti a vario titolo al fisco, incluse le imposte indirette. Perciò, anche se gli evasori cercassero di rifarsi sui loro clienti, aumentando i prezzi, l’effetto netto per i tartassati difficilmente potrebbe risultare nullo.

L’evasione è un gioco a somma negativa. Una furbizia perdente. Vincerla conviene all’economia e ai cittadini italiani. A lungo andare, perfino a chi la pratica. Le misure della finanziaria non sono che un primo timido passo.

da www.ilsole4ore.it

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