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"Perchè è sbagliato tagliare i fondi all'istruzione", di Giovanni Ferri

Ho avuto di recente l’occasione di partecipare a tre convegni in cui si discuteva di istruzione e sviluppo economico. Erano tutti e tre convegni internazionali ma ciascuno di essi avveniva in uno specifico contesto nazionale: la Corea del Sud, il Giappone e la Russia.
Ebbene, in tutti e tre i convegni il messaggio sul legame tra istruzione e sviluppo è stato sostanzialmente convergente: nessun Paese che da povero è diventato ricco è riuscito a farlo senza, prima della (e durante la) fase di crescita accelerata, aver accresciuto di gran lunga i propri investimenti in istruzione. Gli esperti fanno notare che il problema non è solo quello di assicurare che la gente sappia leggere e scrivere – in termini tecnici, la “alfabetizzazione strumentale” – ma anche che una fetta più ampia possibile della popolazione acceda all’istruzione secondaria (scuole superiori) e terziaria (università) in modo che tanti si dotino degli strumenti – la “alfabetizzazione culturale” – per mettere a frutto il proprio ingegno al servizio suo proprio e della collettività di appartenenza. Un Paese che investe molto in istruzione sarà, perciò, in grado di generare più innovazione e, con ciò, anche accrescendo la propria produttività, essere competitivo sullo scenario internazionale. In un certo senso, il Paese che investe molto in istruzione realizza un’operazione culturale che arricchisce il futuro del proprio popolo, lo nobilita, lo rende più aperto e attraente per le altre genti, anche perché la cultura e la conoscenza sono per loro natura beni sovranazionali.
Ma la spesa in istruzione serve solo nella fase in cui un Paese si vuole arricchire oppure è necessaria anche per mantenerlo ricco? La risposta inequivocabile è si. Più emblematico di tutti è il caso della Corea del Sud che, proprio grazie ai suoi enormi investimenti in istruzione, ha saputo celermente spostarsi dalle produzioni manifatturiere tradizionali – dove la sua posizione veniva insidiata da nuovi protagonisti (es. la Cina) con costi del lavoro più bassi – a quelle ad alta tecnologia. Così i coreani, avendo raggiunto un livello di ricchezza medio-alto già negli anni ’90, lo hanno saputo ulteriormente accrescere negli anni successivi.
Pierluigi Ciocca, già Vicedirettore Generale della Banca d’Italia, ha intitolato un suo recente libro “Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia” (Torino, Bollati-Boringhieri, 2007). È una domanda che spiazza il lettore. Nel suo vivace e intelligente saggio, Ciocca propone una lettura dell’arricchimento dell’Italia nei decenni del dopoguerra da cui sprigionano tutti i dubbi e le incertezze attuali. Anche se Ciocca non lo dice esplicitamente, dal suo ragionamento traspare il timore che in Italia si sia smarrita la voglia di futuro e che il Bel Paese rischi seriamente di avviarsi verso un inesorabile declino economico.
Legando quanto emerso nei convegni internazionali citati al ragionamento di Ciocca, occorre allora chiedersi se in Italia si investa abbastanza in istruzione. La risposta è no, anzi, sempre meno. Nel confronto internazionale l’Italia non brilla: al 2004, la spesa per istruzione era pari al 4,8% del PIL (prodotto interno lordo), contro una media del 6,1% tra tutti i Paesi industrializzati (OCSE) e, al 2005, la quota di popolazione con diploma, rispettivamente, di scuola media superiore e universitario era del 37 e 13%, contro medie OCSE del 41 e 26%. Per di più, dal 2008 sono stati avviati tagli drastici: secondo il piano di riorganizzazione del Dl 112/2008 la scuola elementare dovrebbe perdere 87.335 cattedre e 45.000 posti da ausiliari tecnico-amministrativi (il 17% del totale), i fondi statali all’università dovrebbero calare del 18,8% al 2011.
Il ragionamento che viene generalmente addotto a giustificazione di questi tagli all’istruzione è che in Italia il sistema scolastico e quello universitario sono inefficienti: perciò, il dimagrimento della spesa dovrebbe tagliare le inefficienze senza ridurre il livello di servizio. Ahimé questa logica è sbagliata per due ragioni. Primo, perché l’Italia stava già investendo di meno rispetto agli altri Paesi ricchi (che vogliono restare tali) e quindi avrebbe dovuto ampliare quegli investimenti. Secondo, perché non c’è nessuna ricetta magica in base alla quale i tagli alla spesa riducano l’inefficienza senza intaccare l’offerta formativa: basta chiedere ai genitori che non trovano il tempo pieno per i figli alle elementari o agli studenti universitari costretti a tirare per la giacca docenti sempre più di corsa a tappare i buchi lasciati dal mancato rimpiazzo dei pensionamenti.
Varrebbe la pena di fermarsi a riflettere e magari fare come in Francia, dove il premio alle università più meritevoli non è stato, come da noi, un taglio minore dei fondi (perché Oltralpe non se lo sono neanche sognati di attuare un taglio drastico e generalizzato) ma un aumento maggiore dei fondi. Altrimenti, la minore istruzione dei nostri giovani produrrà un’enorme “carneficina sociale” e tarperà definitivamente le ali alle forze migliori dell’Italia. Forse la prossima volta che sentiremo un governante parlare di modernizzazione dell’Italia anziché una “standing ovation” gli dovremmo innalzare uno “standing boo”.

Post Scriptum: La recente decisione del governo di chiudere centri di ricerca indipendenti come l’Isae e l’Isfol peggiora ulteriormente la situazione alterando ulteriormente gli equilibri verso un’Italia decerebrata in cui la “cultura del fare” non presuppone il necessario passaggio del “prima pensare”.

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