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"La previdenza flessibile", di Tito Boeri

La nostra infrazione è figlia di un´entrata in vigore troppo lenta della riforma che ha introdotto il sistema contributivo. La Svezia invece ha previsto una transizione molto più rapida. È passata una sola settimana e il governo deve tornare a mettere mano al capitolo pensioni. Anche questa volta colpendo soprattutto le donne. Vediamo perché, come si è arrivati a questa situazione, quali risparmi siano conseguibili con le misure che il governo si appresta a varare e come cercare di ridurre le iniquità di questi interventi.
La Commissione Europea non interviene sui regimi previdenziali degli stati membri, non ne ha la facoltà. Deve però garantire, come guardiana del Trattato istitutivo della Comunità Europea, una parità di trattamento tra uomini e donne da parte dei loro datori di lavoro. Lo Stato è il datore di lavoro dei pubblici dipendenti. Come tale, secondo la Corte di giustizia europea, non può trattare diversamente uomini e donne, offrendo a queste ultime la possibilità di andare in pensione a 60 anziché a 65 anni. Se lo Stato non è datore di lavoro, come nel caso dei lavoratori del settore privato, può introdurre differenze di genere nell´età pensionabile senza incorrere nelle sanzioni europee. E´ un problema che riguarda il solo settore pubblico. Il governo italiano per rispettare la sentenza della Corte di giustizia europea aveva deciso di innalzare gradualmente, dal 2010 al 2018, l´età pensionabile delle lavoratrici del pubblico impiego, incrementandola di un anno ogni due. Oggi la Commissione ci chiede di fare più in fretta: entro il 2012.
La nostra infrazione è figlia di un´entrata in vigore troppo lenta della riforma che ha introdotto nel 1996 (15 anni fa!) il sistema contributivo in Italia. Se avessimo fatto come in Svezia, prevedendo una fase di transizione molto più rapida (15 anni anziché quasi 40) al sistema contributivo, il problema a questo punto non si porrebbe. In Italia, invece, si è preferito dilazionare i tempi di attuazione della riforma. Per poi intervenire con una lunga serie di piccoli aggiustamenti, forzatamente iniqui e parziali, che tra l´altro ci hanno allontanato sempre di più dal disegno della riforma varata nel 1996 senza un´ora di sciopero. L´ultimo aggiustamento è quello introdotto dal governo con la manovra economica varata la scorsa settimana, che prevede uno slittamento di dodici mesi per i lavoratori dipendenti e di diciotto mesi per i lavoratori autonomi dell´età in cui si va in pensione. Il ritardo è più forte per le pensioni di vecchiaia che per quelle di anzianità.
È un provvedimento che colpisce soprattutto le donne che hanno carriere lavorative molto più discontinue degli uomini (non da ultimo per il tempo da loro dedicato alla cura dei figli) e che in genere non riescono ad aver completato l´anzianità contributiva necessaria per godere della pensione di anzianità.
Il nostro Governo sembra intenzionato a recepire alla lettera la richiesta della Commissione Europea. Questo significa sei anni in meno per alzare a 65 anni l´età di pensionamento delle donne del pubblico impiego. E´ un intervento che nella sostanza ripristina lo scalone della riforma Maroni-Tremonti del 2003. I risparmi di questa operazione saranno abbastanza contenuti, non dovrebbero superare i 300 milioni di euro all´anno, per poi calare progressivamente man mano che si applica il sistema contributivo, che fa aumentare l´ammontare delle pensioni se si va in pensione più tardi. Sarà un nuovo intervento che colpisce le donne dopo quello varato solo una settimana fa.
Se non si vuole continuare lo stillicidio di interventi, se non si vogliono introdurre nuove asimmetrie di trattamento cercando magari di rimediare a vecchie iniquità, c´è una sola cosa da fare. Bisogna tornare ai principi del sistema introdotto nel 1996. Questo significa garantire flessibilità sul quando andare in pensione permettendo a chi decide di ritardare l´andata in pensione di ottenere poi quiescenze più alte. Sarebbe un modo per rispondere ad esigenze diverse e a diverse lunghezze auspicate (o imposte dal mercato del lavoro) della vita lavorativa. Si potrebbe andare in pensione dai 60 ai 67 anni, applicando subito le riduzioni attuariali previste dalla riforma Dini fin dal 1996 per chi va in pensione prima dell´età massima. Per tutti, uomini e donne, dipendenti pubblici e privati. In questo modo si sarebbe più equi, sia tra uomini e donne che tra generazioni diverse, perché significa accelerare il passaggio al sistema che entrerà in vigore pienamente solo nel 2032 secondo la normativa attuale. I risparmi sarebbero più consistenti dei provvedimenti tappabuchi e improvvisati di questi anni. E si terrebbe conto del fatto che i tempi del lavoro e del non lavoro sono diversi non solo tra uomini e donne, ma anche tra le persone dello stesso sesso, cioè tra le donne e gli uomini che hanno fatto scelte diverse in quanto a responsabilità famigliari, carriere lavorative, redditi per la vecchiaia e durata del loro impegno professionale.

La Repubblica 08.06.10

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“Europa: donne in pensione a 65 anni entro il 2012 “, di Laura Matteucci

«Non c’è alcuno spazio di trattativa », «il Consiglio dei ministri deciderà giovedì». Sacconi dixit, dopo un colloquio con la Commissaria europea a giustizia e diritti Viviane Reding. L’Italia, dunque, si appresta entro la fine della settimana a chiudere la partita dell’innalzamento dell’età pensionabile a 65 anni per le donne che lavorano nel pubblico impiego già dal 2012. Nessun regime transitorio, dunque: l’operazione verrà fatta rientrare nella manovra economica e riguarderà in prima battuta 30mila donne. La Reding conferma: «L’Italia ha avuto 20 anni, da quando sono state adottate le direttive Ue sulla parità retributiva tra uomini e donne, per rispettare il diritto comunitario, ora dovranno mettere in ordine il loro sistema». Negata così anche la gradualità prevista dal decreto italiano fino al 2018: secondo Reding già il 2012 è il massimo che si possa concedere rispetto all’esigenza di «immediata applicazione» della sentenza della Corte di giustizia del 2008. In caso contrario, le eventuali sanzioni potrebbero arrivare a 714mila euro per ogni giorno di ritardo nell’adeguamento. L’aut-aut ha del paradossale, visto che ancora nei giorni scorsi la Ue ha confermato la solidità del sistema pensionistico italiano, tra i più sostenibili d’Europa.

USCITA FLESSIBILE Sacconi nega che il governo,dopo anni di silenzio sull’argomento, abbia preso ora la palla (europea) al balzo per fare cassa, ed assicura che non si tratta di un precedente per il privato, al quale «la sentenza non è in alcun modo applicabile». Quello che il ministro del Lavoro non dice lo puntualizza invece Cesare Damiano, capogruppo Pd in commissione Lavoro: «L’Ue – spiega – non ci ha chiesto i 65 anni, ma di equiparare le condizioni di lavoro di uomini e donne. Meglio sarebbe una misura di base uguale per tutti, 61 o 62 anni, a partire dalla quale inserire il principio di un’uscita flessibile, fino ai 70 anni, liberamente scelta dai lavoratori». Non si tratta solo di manovrare l’asticella del limite anagrafico, la proposta di Damiano firmata insieme al collega Sandro Gozi è articolata: «Bisogna anche eliminare le discriminazioni in materia di lavoro, stipendi e opportunità – spiega Gozi – Insomma, un welfare moderno a favore delle donne al quale l’attuale esecutivo non è affatto interessato ». Rosy Bindi accusa Sacconi di «usare l’Europa come alibi contro le donne», e ricorda che «l’Italia è il paese con il minor numero di donne occupate, con uno dei più bassi indici di natalità, con la più bassa percentuale di pil destinata al sostegno alle famiglie. Dati che bastano a far capire che quella dell’età pensionabile è un’arma impropria usata contro le donne. Questo attacco non può passare sotto silenzio, il confronto si allarghi a tutto il welfare». MIGLIORAMENTO O PUNIZIONE? In realtà, quello che chiede l’Europa è che le pensioni delle donne non siano inferiori a quelle degli uomini. Per esempio a partire dal fatto che a parità di lavoro le donne percepiscono in media salari inferiori del 30% rispetto ai colleghi uomini, il che ovviamente si ripercuote anche sul valore delle pensioni stesse. Mail governo trasforma una richiesta di miglioramento in un’operazione punitiva volta a portare un po’ di soldi in cassa. Pochi, peraltro, come ammette lo stesso Sacconi, almeno inizialmente: «La questione per il primo anno riguarda la posizione di 30mila donne, con un impatto modesto in termini di risparmio per lo Stato», quantificato da alcuni economisti in un centinaio di milioni di euro l’anno. Anche perchè fino al 2013 si può andare in pensione se si arriva a quota 95 sommando età e contributi (poi, invece, bisognerà avere almeno 61anni e raggiungere quota 97). L’attuale normativa ha gradualmente aumentato l’età pensionabile (il primo step è già partito quest’anno: dal primo gennaio l’età per le impiegate pubbliche è salita da 60 a 61 anni). Continuando così fino al 2018, si sarebbe arrivati a poco meno di 2,5 miliardi di risparmi e, alla fine del percorso, a circa 30mila pensioni di meno. Molto critico anche il responsabile Welfare dell’Idv, Maurizio Zipponi: «Sacconi e l’Europa stanno operando contro gli interessi delle lavoratrici italiane. Il governo deve mettere le donne che lavorano, a partire dagli asili nido fino alla assistenza agli anziani, alla pari di quelle europee ed equiparare il salario per uomini e donne».

L’Unità 08.06.10

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«Le penalizzazioni in nome della parità sono inaccettabili». Intervista a Rossana Dettori (FP-CGIL)

È inaccettabile che la parità passi solo per le penalizzazioni. Mai che si parli di retribuzioni, eppure per le donne sono inferiori del 30% rispetto agli uomini. O del lavoro di cura che devono fare, delle loro carriere discontinue. Del fatto che abbiamo il più alto numero di lavoratrici precarie d’Europa». Rossana Dettori è la leader di Fp, i lavoratori pubblici della Cgil, per 20 anni ha fatto l’infermiera: «Si può immaginare un’infermiera o una maestra d’asilo o una vigile del fuoco restare lavoro fino a 65 anni?. Ed è verosimile che presto toccherà al lavoro privato». Effettivamente c’è chi lo teme… «Premesso che nella manovra c’è già lo slittamento di un anno per chi, nel pubblico, deve andare in pensione, io credo che visto che ci si barrica dietro l’equiparazione, presto si parlerà di equiparare il privato al pubblico e tutte andranno in pensione a 65 anni. In più pare ormai cancellato ogni ragionamento sulla gradualità». Così dice la Ue. Il governo italiano ha alternative? «Il problema sta a monte. Fin dall’inizio di questa vicenda, il governo italiano si è mosso male, non ha difeso a sufficienza il sistema previdenziale italiano che non è fatto di casse professionali, e le riforme fatte. Quella di questi giorni è la chicca finale ma è dall’inizio che non abbiamo saputo rispondere. E pensare che con le quote latte siamo stati bravissimi, abbiamo tenuto testa più di 10 anni». Dobbiamo attenderci una grande fuga dal lavoro? «Sta già accadendo per via della manovra. Mi chiedo che cosa ne sarà dei servizi pubblici tra uscite, blocco del turnover e mancata stabilizzazione del 50%dei precari. Daremo battaglia. A cominciare con la grande manifestazione del 12».

L’Unità 08.06.10