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"Pronto chi non parla? Una legge infelice", di Stefano Folli

Se è vero, come assicura il presidente del Consiglio, che per varare la legge sulle intercettazioni ci sono voluti due anni di preparativi, il meno che si possa dire è che questo tempo poteva essere speso meglio. Ieri la decisione di porre la fiducia al Senato sul testo ha suggellato un provvedimento nato male e cresciuto sbilenco al punto da risultare farraginoso e contraddittorio, forse incostituzionale in qualche sua parte.

Non un grande risultato per due anni di lavoro. Sono scontenti coloro che volevano (a ragione) una più sicura tutela della «privacy». E sono inquieti coloro che fin dall’inizio erano preoccupati per l’esercizio della libertà d’informazione e per la tutela delle indagini giudiziarie. La lunga trattativa all’interno della maggioranza, protagonista il presidente della Camera, non ha portato – spiace dirlo – a correzioni abbastanza significative. Ritocchi e aggiustamenti, certo; qualche miglioramento, senza dubbio. Ma nel complesso troppo parziali per dare un senso compiutamente liberale alle misure che il parlamento è chiamato ad approvare.
Forse questo è il punto cruciale. Esiste il problema delle intercettazioni e del loro uso improprio. Ma occorreva risolverlo all’interno di una cornice liberale, un perimetro che fosse in grado di conciliare i diritti individuali e la buona salute delle istituzioni. Invece non si sfugge all’impressione di un intento punitivo e al limite vessatorio nei confronti dei magistrati e ora degli editori.
Rispetto ai primi la legge dispone sul campo una serie di cavalli di frisia che rischiano di tradursi in pesanti intoppi burocratici. È il caso del limite dei 75 giorni, prorogabili di tre in tre. O del vincolo di tre giorni, a loro volta prorogabili, per le intercettazioni ambientali in luoghi privati. Dal momento che siamo in Italia, la norma rischia di apparire troppo severa (intralcio alle inchieste) oppure di risultare facilmente aggirabile con qualche espediente. O magari entrambe le cose, a seconda delle procure e delle situazioni. La condizione peggiore, del tutto a scapito del cittadino.

Rispetto ai secondi, gli editori, si crea un meccanismo poco chiaro che rischia di creare incomprensioni e invasioni di campo all’interno dei giornali. Ma forse era proprio questo l’obiettivo di chi ha ideato la piramide delle sanzioni.
Vedremo. Di sicuro restano sul campo due problemi, uno politico e uno istituzionale. Il primo riguarda il ruolo del parlamento e in esso lo spazio di manovra di Gianfranco Fini, nella sua doppia veste di leader della minoranza del Pdl e di presidente di un’assemblea. Come è evidente, il voto di fiducia chiesto a Palazzo Madama è destinato a ripetersi a Montecitorio. Se il compromesso raggiunto sulla legge fosse discreto, non ci sarebbero problemi. Ma purtroppo non è così: come detto, gli scontenti superano di gran lunga i pochi soddisfatti. Il che pone Fini in una difficile posizione, stretto tra l’incudine e il martello.
Riaprire la questione di merito significa probabilmente scavare un fossato irrimediabile con Palazzo Chigi. Ma accettare di buon grado la “fiducia” equivale a perdere una bella fetta del credito che il presidente della Camera si è costruito a fatica nell’opinione pubblica e nel rapporto con l’opposizione (tutta l’opposizione, visto che anche l’Udc non ha dubbi sul voto contrario).

Forse anche tale risultato è stato messo nel conto da chi ha voluto che il braccio di ferro si concludesse in questo modo. E non sembra un caso che il presidente del Consiglio, nel momento in cui «blindava» con la fiducia l’intesa nella maggioranza, si sia espresso con tanta veemenza contro la Costituzione, descritta come un fardello che impedisce l’efficienza del governo.
L’attacco è tanto insistito e plateale da lasciare a dir poco perplessi. Per certi aspetti è funzionale al ritorno sulla scena del leader: serve a distogliere i riflettori dai Tremonti e, appunto, dai Fini per dirigerli di nuovo sulla figura del premier. Ma di fatto la coincidenza è sorprendente. Arriva in porto una legge che i giornalisti e i magistrati giudicano dannosa, persino pericolosa, e proprio nelle stesse ore Berlusconi muove un attacco verbale alla Carta costituzionale. Non al capo dello stato, sia chiaro, ma alla Costituzione di cui il presidente della Repubblica è il garante. Ben sapendo, peraltro, che proprio il Quirinale dovrà esaminare la legge sulle intercettazioni e valutarla in tutti i suoi controversi aspetti.
Sappiamo che Napolitano nei giorni scorsi ha agito con molta discrezione perché si arrivasse a un risultato migliore. Sappiamo anche, da qualche indiscrezione, che nelle ultime ore è apparso scettico davanti agli esiti che si profilavano. Fra breve l’esame del testo potrebbe svolgersi in un clima di tensione che è proprio l’ultima cosa di cui l’Italia ha bisogno in questo momento.
da www.ilsole24ore.it