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«Così distruggono la pubblica amministrazione», di Oriano Giovanelli

Al mio comune, Pesaro, nel 2011 verranno tagliati oltre 3 milioni di euro e oltre 5 milioni nel 2012. Questo è l’effetto concreto della manovra appena varata dal governo ed ora all’esame del senato. Ma non basta: con la previsione di un tetto massimo del 40% alle spese per il personale sono a rischio numerosi contratti a termine (una situazione analoga si creerà nella sanità) i quali, è proprio il caso di dirlo, non sono figure professionali aggiuntive ad una dotazione organica sufficiente a mandare avanti i servizi, ma la conseguenza pratica di anni di blocchi più o meno rigidi delle assunzioni. Si tratta cioè di personale per lo più giovane, indispensabile per fare funzionare i servizi per gli anziani, per l’infanzia ecc. Perché è questa una delle perversioni peggiori delle scelte operate dal governo: colpire i comuni che maggiormente si sono dotati di servizi, che hanno cioè dato vita ad un forte e strutturato sistema di welfare locale. Per questi stessi motivi un altro soggetto destinato a pagare un prezzo carissimo sarà la cooperazione sociale.
Questa è la chiave di lettura dell’ultima manovra finanziaria che a mio parere, è la stessa con la quale il governo Berlusconi ha impostato, da un biennio circa, la demolizione incondizionata e destrutturata della pubblica amministrazione. Messa sotto accusa come fosse la culla di tutti i fannulloni, ora viene duramente colpita e affondata in modo indifferenziato: i ministeri come i comuni, la scuola come la giustizia, le forze armate come la sanità.
Certamente chi pagherà davvero questa manovra saranno le famiglie, le persone più bisognose di servizi, i precari e chi con uno stipendio di poco superiore ai mille euro dovrà rinunciare al rinnovo del contratto per un triennio. Ma pagherà anche il paese nel suo complesso. Siamo in presenza non di una manovra oggettiva necessitata dal dovere di mettere in sesto i conti pubblici per proteggerci dalla speculazione finanziaria sui titoli di stato, bensì da una manovra ideologica che individua il “male” in tutto ciò che è pubblico, sia esso la politica, i servizi, il pubblico impiego, il servizio sanitario nazionale, la scuola; e per questo va drasticamente ridimensionato. Invece non è così. La linea portata avanti da questo governo è quella di aumentare le differenze sociali, di schiacciare verso il basso i due terzi del mondo del lavoro e togliere definitivamente ai giovani la fiducia per un domani migliore.
Dobbiamo risolvere questi problemi mettendoci al lavoro con rigore e durezza e correggere queste storture individuandole e colpendole una a una. Agitare i problemi per demolire un sistema, non funziona.
Detto in altre parole per chi ha concepito questa manovra, al di là delle affermazioni di facciata, il problema non è l’evasione fiscale e contributiva, l’economia criminale che controlla almeno tre regioni e si infiltra in tutte le altre, le scelte opache – diciamo così per carità di patria – che hanno portato alla nascita di Difesa spa o al tentativo di far nascere Protezione Civile spa, il fatto che siamo l’unico paese che tassa solo il lavoro, sia di chi lo produce cioè le imprese, sia di chi lo fa cioè i lavoratori, e lascia del tutto intonsi i redditi da patrimoni o da rendite finanziarie; e per questi signori non è un problema nemmeno che a fronte di una spesa per la pubblica amministrazione che è in linea con gli altri principali paesi europei questa in effetti sia molto meno efficace ed efficiente, al contrario traggono da questa realtà lo spunto per portare consenso alla loro idea di “demolizione” di un sistema.
Per questi signori l’impressionante proliferazione clientelare delle nomine a dirigente nei diversi ministeri, a partire dalla presidenza del consiglio dei ministri, è un problema minore rispetto alla prospettiva di mettere in ginocchio un comune e costringerlo a chiudere un asilo nido, una scuola materna, una casa di riposo.
Va onestamente detto che questo governo non è solo nel dispiegare tutto questo furore ideologico. Con un misto di arroganza e ignoranza siamo inondati quotidianamente nei giornali e tv da saccenti commentatori che sono protesi a portare un loro chiodino per crocifiggere un modello di paese, quello disegnato nella nostra Costituzione, portando magari, quando va bene, l’argomento che non ce lo possiamo più permettere. E così scivoliamo verso un declino che non è ormai più solo economico ma è civile e culturale.
È in questo contesto, crudo ma ritengo veritiero, che ci troviamo a discutere di federalismo. Di quello fiscale e di quello amministrativo.
L’idea per cui ci battiamo da tanti anni e che vede nell’autogoverno delle comunità locali e nel nuovo ruolo delle regioni l’unica possibile strada per rilanciare un’idea unitaria di paese, per accorciare le drammatiche differenze che sempre più distinguono il sud dal centro e dal nord, per creare una burocrazia meno macchinosa e delle istituzioni davvero più vicine alle persone, alle famiglie e alle imprese. È l’idea riformatrice che anche il presidente della repubblica Napolitano ci invita a percorrere per recuperare quella piegatura centralista che il neonato stato unitario subì 150 anni fa. Per questa idea di federalismo le scelte governative possono davvero essere la tomba. Ma non lo sono per il federalismo ideologico che non ha niente a che vedere con la storia del movimento delle autonomie del nostro paese e che è portato avanti da un partito come la Lega Nord che come è stato più volte denunciato, non è autonomista ma ideologico e come tale si nutre di miti, di contrapposizioni, di esasperazione delle differenze e di quel fenomeno, che oggi sembra essere una grande scoperta da parte dei sociologi che va sotto il nome di “secessione di fatto”.
A riprova di ciò valga che nessun partito realmente autonomista avrebbe tollerato e tollererebbe il prepotente ritorno centralista di questi anni, o sopportato senza colpo ferire la violazione sistematica di una gelosa sfera di autonomia degli enti locali per il raggiungimento della quale ci sono voluti decenni di battaglie politiche e culturali. Ma un partito ideologico sì, può sopportare queste apparenti contraddizioni, anzi, le strumentalizza.
Il dibattito sulla Carta delle Autonomie fino ad oggi svoltosi nella prima commissione della camera dei deputati è stato assolutamente coerente con questa impostazione di fondo: nessuna apertura della maggioranza e del governo sul rilancio della democrazia di base come fondamento di una rinnovata coesione fra le istituzioni e il paese, al contrario, si continua ad alimentare l’antipolitica che forse paga in termini di consenso ma, come ha detto giustamente Bersani, è il cancro della democrazia. Nessun rilancio dell’autonomia finanziaria, organizzativa, statutaria per i comuni e le province destinate a subire ancora intromissioni dei ministeri e della legge statale; nessuna vera proposta, tranne l’accoglimento parziale di alcune formulate da noi, che si preoccupi di affermare, coerentemente con i tempi e con l’evoluzione dei territori, un nuovo modello organizzativo più razionale ed efficiente. Il caso emblematico è a tal proposito il rifiuto di rilanciare la proposta contenuta nei decreti Bassanini di fine anni ’90 di trasformare le prefetture in Uffici territoriali del governo all’interno dei quali riportare razionalizzandoli, tutti gli uffici dei ministeri ancora diffusi capillarmente in ogni provincia.
Di tutto ciò le forze autenticamente autonomiste devono avere piena consapevolezza e trarne spunto per rilanciare una forte azione unitaria. Mi rendo conto che in questo tempo di falsari e pataccari non è facile rilanciare un’idea autentica di federalismo, di autogoverno, di diversa natura unitaria della repubblica, ma il passaggio per certi versi drammatico che stiamo vivendo richiede una proposta di sistema e non piccoli accorgimenti tattici.
da europaquotidiano.it