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"Israele e il segreto nucleare", di Barbara Spinelli

Israele deve capire che ha pochissimo tempo per liberarsi dalle inferriate in cui si è ingabbiato. Difficile capire i pericoli che corre Israele ­ pericoli non nuovi, ma immensamente dilatati dall’assalto, in acque internazionali, alla flottiglia che il 31 maggio ha tentato di forzare il blocco di Gaza ­ se non si adotta uno sguardo lungo, che amplifichi le nozioni dello spazio e del tempo. Lo spazio più ampio è quello popolato da forze, in Medio Oriente, che sono in mutazione e tendono a divenire potenze decisive: l’Iran è una di queste, ma anche la Turchia. Il tempo più ampio sono i 43 anni in cui Israele è divenuto uno Stato che occupa in maniera permanente spazi non suoi, abitati da un popolo che aspira a emanciparsi dal colonizzatore e a farsi Stato. In questi 43 anni Israele ha goduto di uno speciale privilegio, e ad esso si è abituato: era l’unico Paese nucleare della zona, anche se lo negava, e l’atomica costruita nel ‘55-58 con l’aiuto francese ha funzionato da deterrente. Nessuno Stato arabo poteva oltrepassare certi limiti e mettere in forse la sua esistenza, grazie alla tutela dell’arma ultima che è la bomba.

Questa condizione di privilegio non poteva durare in eterno è infatti ora sta vacillando. Il desiderio iraniano di rompere il monopolio israeliano sul nucleare è antico, e precede l’avvento del regime teocratico a Teheran. L’America stessa ha tollerato il monopolio, sia pure faticosamente, e lo tollera di meno oggi che il suo potere globale si sfalda. Nei rapporti tesi fra Obama e Netanyahu c’è la questione atomica, non detta ma sempre più pensata.

Difficile alla lunga vietare ad altri attori l’arma, se la si concede a Israele. Difficile chieder loro di parlare vero, senza chiederlo a Israele. Obama aveva questo in mente, quando invitò il premier israeliano a partecipare alla conferenza sulla sicurezza nucleare del 12-13 aprile a Washington. Invito che Netanyahu declinò, credendo di immortalare in tal modo il proprio statuto di potenza nucleare opaca, che nega il possesso della bomba e, al massimo, parla di «opzione nucleare». La conferenza ha auspicato una zona denuclearizzata in Medio Oriente, pensando all’Iran ma anche a Israele. I motivi della non partecipazione si possono capire – Israele non ha firmato il Trattato di non proliferazione – ma rimanere assenti significa vietare a se stessi lo sguardo lungo, nello spazio e nel tempo, che urge in questo momento.

In Israele si parla poco della bomba e della centrale di Dimona. Mordechai Vanunu, il tecnico che lavorava a Dimona e ne rivelò l’esistenza, parlò di 200 testate in un’intervista al Sunday Times del 1986, e venne incarcerato per 18 anni, accusato di alto tradimento. Israele resta una democrazia, ma sull’atomica mantiene un segreto di natura autoritaria. I suoi esperti danno alla segretezza il nome di opacità. Lo storico Avner Cohen, autore di un libro importante sulla questione ( Israel and the Bomb , Columbia University Press 1998, rifiutato in Israele) sostiene che l’opacità è una «cultura chiusa in se stessa che non permette di pensare l’epoca della post-opacità». I responsabili dell’atomica si sono «abituati a lavorare nell’anonimato, immunizzati da critiche esterne». Il segreto nucleare è un paravento forse necessario in passato, ma che ora copre debolezze e gesti di follia politica.

La guerra dei Sei giorni, nel ’67, fu combattuta al riparo della bomba, ultimata tra la fine degli Anni 50 e i primi 60. Ma possedere la bomba senza ammetterlo ha finito col congelare il pensiero, dando a Israele l’impressione di un tempo immobile, di un monopolio non scalfibile. Congelamento accentuato dall’assenza di test nucleari. Per le altre potenze atomiche il test è stato un atto di trasparenza, oltre che di orgoglio o tracotanza. In Israele la dissimulazione ha consentito che la bomba restasse un deterrente puro, che mette paura senza uscire dall’irrealtà del simbolo.

La volontà dell’Iran di divenire una nazione nucleare (e in futuro una simile volontà turca) mette fine al simbolo dissimulato. La bomba comincia a farsi reale, forse usabile in caso di aggressione. È il risultato d’un monopolio contestato ma anche della politica dell’opacità, che molti leader arabi considerano un oltraggio. È anche il risultato della nuova fragilità delle forze convenzionali israeliane. La bomba è un deterrente efficace quando il suo uso è minacciato, ma non necessario. Quando è necessario, la deterrenza rovina. Le ultime guerre israeliane e l’assalto alla flottiglia hanno confermato tale fragilità. Inoltre Israele ha alle spalle una potenza Usa in declino, invischiata in guerre fallimentari, meno disponibile.

Tanto più grave è la delegittimazione di cui soffre lo Stato israeliano, soprattutto da quando Hamas ha vinto le elezioni del giugno 2007 ed è iniziato il blocco di Gaza. Una delegittimazione che tende a espandersi, non solo localmente ma mondialmente. Il nuovo potere regionale esercitato da Iran e Turchia è guardato con sospetto da Washington, ma in fondo tollerato. L’Iran è trattato come un reietto ma la Turchia resta membro della Nato, con cui esistono solidarietà preziose per Washington. Basti pensare allo strano gioco di scacchi in corso sull’atomica iraniana. Il 9 giugno, il Consiglio di sicurezza ha adottato sanzioni contro Teheran, con il consenso di Russia e Cina. Ma il 17 maggio, un accordo regionale di vasta portata era stato raggiunto tra Iran, Turchia e Brasile, in base al quale Teheran accettava di trasportare in Turchia 1200 chilogrammi di uranio a basso arricchimento, in cambio di 120 chilogrammi di uranio arricchito al 20 per cento da usare per il proprio reattore di ricerca medica. Quel che America, Europa, Russia non erano riuscite a fare per anni, due potenze medie l’hanno ottenuto rapidamente. Ma c’è di più: il 27 maggio, il ministero degli Esteri brasiliano ha reso pubblica una lettera inviata da Obama a Lula (e probabilmente al turco Erdogan) in cui l’accordo di Teheran veniva appoggiato, sia pure scetticamente. Le sanzioni lo hanno messo in sordina, ma forse non affossato.

In questo mondo in mutazione si muove Israele, sempre più ingabbiato dalle inferriate che si è fabbricato. Sempre più prigioniero della propria tendenza a considerare equivalenti due minacce che non lo sono: la minaccia alla sua legittimità, e alla sua esistenza. La prima va combattuta politicamente, e preliminarmente alla lotta per la sopravvivenza. Equiparare all’Olocausto l’atomica iraniana, e la rottura del monopolio sul nucleare, significa impedire a se stessi correzioni di rotta e sforzi di rilegittimazione. Se ogni correzione è rifiutata, niente ha senso: né la lotta alla banalizzazione della bomba, né l’uscita dall’opacità, né un negoziato con potenze nucleari in fieri, né, soprattutto, la soluzione del dramma palestinese. È quest’ultimo che consente a tanti Paesi di delegittimare continuamente Israele.

Se adotta uno sguardo lungo, Israele dovrà per forza scoprire che di tempo ne ha pochissimo, per cambiare radicalmente. Non può continuare a colonizzare terre quando anche il Papa denuncia l’occupazione, non può costruire sempre nuovi insediamenti, a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, senza attrarre su di sé il risentimento non solo di Stati contigui ma della stessa America e dell’Europa. Quarantatré anni di colonizzazione hanno reso affannoso quello che ora le tocca fare: facilitare la nascita di un vero Stato accanto a sé, che renda il popolo palestinese non solo fiero ma infine responsabile, dunque anche imputabile.

Gli uomini di Netanyahu ancora si muovono nel mondo di ieri, quello dell’opacità e della sicurezza di sé. Nell’aprile scorso, il presidente del Parlamento Reuven Rivlin ha dichiarato preferibile uno Stato bi-nazionale, piuttosto che dividere Israele e Cisgiordania in due Stati separati. Altri la pensano allo stesso modo. Sono posizioni suicide. Perché se Israele incorpora gli arabi delle zone colonizzate, cesserà di essere uno Stato ebraico. Se non li incorpora, e continuerà a rendere impossibile lo Stato palestinese, cesserà di essere una democrazia. È questo il dilemma cui è condannato, terribile ma ineludibile.

La Stampa 13.06.10