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"Ma un iter concordato farebbe comodo al premier", di Marcello Sorgi

L’entrata in scena di Umberto Bossi sul terreno accidentato della legge sulle intercettazioni inaugura la fase due della strategia dell’accerchiamento di Fini e il tentativo di rimettere insieme i cocci della maggioranza, a partire dai due estremi. Il Senatur e il Presidente della Camera, si sa, non si sono mai amati. La loro è da molti anni una convivenza forzata all’interno del centrodestra. Una delle ragioni per cui Fini ha rotto con Berlusconi è che considera l’alleanza del Pdl con la Lega sbilanciata verso quest’ultima, e la consuetudine dei pranzi settimanali ad Arcore tra il Cavaliere e la delegazione del Carroccio una plateale dimostrazione della disparità tra i membri dell’alleanza.

A quegli incontri, infatti, Fini non è mai stato ammesso. E il tentativo di riequilibrare i rapporti istituendo un altro parallelo incontro settimanale tra il presidente del consiglio e il presidente della Camera, dopo un paio di tentativi, s’è rivelato fallimentare e ha dato luogo a litigate memorabili, alternate da lunghi periodi di mancata frequentazione.

Mentre appunto i finiani – in testa la solforosa presidente della commissione giustizia Giulia Bongiorno – ieri alla Camera davano fuoco alle polveri, chiedendo un ripensamento e una riscrittura di parte del contestato testo varato dal Senato, un Bossi piuttosto affaticato dalla torrida giornata romana, e sorretto a tratti dal figlio Renzo, si dirigeva verso l’ufficio del più alto inquilino di Montecitorio. La discussione tra i due, s’è capito da quel che lo stesso Bossi ha detto all’uscita, come si dice dev’essere stata franca. Il leader leghista s’è presentato da mediatore e non da ambasciatore di un Berlusconi molto irato.

La conclusione è che, se quella di Fini non è una tattica pregiudiziale che punta a far saltare la legge, si può discutere quali emendamenti servono per migliorare il testo e approvarlo rapidamente, rispedendolo al Senato per l’esame finale. Berlusconi nel frattempo si occuperebbe di approfondire con Napolitano tutte le riserve emerse finora, per sì che una volta approvata la legge possa seguire anche la firma del Quirinale.

In due settimane il problema potrebbe essere risolto così. L’iter concordato consentirebbe a Fini di avere la parola finale su un testo mai condiviso fino in fondo, a Berlusconi di evitare la brutta figura di un altro rinvio, e a Bossi, oltre al merito di aver riportato la pace nella maggioranza, la possibilità di chiedere un’accelerazione sulla manovra economica e garanzie precise sul completamento del federalismo, la riforma che da sempre interessa più di tutto alla Lega.

La Stampa 18.06.10

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“Ma il Quirinale non si è mosso”, di Federico Geremicca

Qualcosa si muove. E se qualcosa si muove, paradossalmente, è perché qualcuno è rimasto cocciutamente fermo sulla propria posizione. La chiave di lettura che il Quirinale offre come possibile spiegazione delle novità che nelle ultime 48 ore sembrano aver reso un po’ meno pesante il clima intorno alla contestata legge in materia di intercettazioni, in fondo è molto semplice.

A rimanere fermo, naturalmente, è stato il Colle: che ha sia evitato coinvolgimenti nella stesura (o nelle correzioni) del provvedimento in questione, sia respinto ogni tentativo di far intendere – a lavori parlamentari in corso – che non avrebbe firmato il testo così come licenziato da Palazzo Madama. Questa posizione ha non solo «ridato dignità al Parlamento e al lavoro di entrambe le Camere» (come annotano al Quirinale) ma anche prodotto le novità di cui si diceva all’inizio. Novità che, a stringere, possono essere ridotte a due: la disponibilità di Berlusconi a non insistere (almeno per ora) su una approvazione-lampo della legge anche alla Camera, e l’invito alla prudenza e alla disponibilità al confronto lanciato ieri da Bossi dopo un incontro con Fini.

Il leader leghista, infatti, è uscito dal colloquio con il presidente della Camera con una ferma convinzione: «Se il Colle non firma la legge, siamo fregati». E’ la conclusione cui è arrivato dopo che Fini gli ha tratteggiato il vicolo cieco che vede di fronte alla maggioranza nel caso di forzature. A cosa potrebbe portare, infatti, un ulteriore surriscaldamento del clima? A un devastante braccio di ferro in Parlamento, con due possibili conseguenze. La prima: una prova di forza inutile, considerato che il Quirinale potrebbe davvero non controfirmare il testo, se non modificato (per esempio nelle direzioni indicate ieri da Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia della Camera); la seconda: un ulteriore e rapidissimo peggioramento del clima politico, che potrebbe forse mettere in discussione la stessa sopravvivenza del governo, e certamente seppellire ogni ipotesi di riforma condivisa.

Si tratta di argomenti che hanno preoccupato e fatto breccia nelle convinzioni di Bossi, che ora afferma: «Bisogna dare un’accelerazione per trovare una via d’uscita». E gli stessi argomenti, in fondo, devono aver fatto venire qualche dubbio anche al premier. Per una lunga fase, infatti, Silvio Berlusconi ha coltivato (e non è detto non coltivi ancora…) la tentazione di andare allo showdown con l’opposizione e la parte recalcitrante della sua maggioranza, ponendo tutti di fronte a un bivio: o si approva la legge così com’è o si fila dritti alle elezioni anticipate. I dubbi devono esser cresciuti quando gli è stato spiegato che, in caso di crisi, l’approdo al voto sarebbe tutt’altro che scontato…

Chi glielo ha spiegato? Va detto, intanto, che il premier ha ormai sufficiente esperienza politica per aver chiaro che andare a elezioni anticipate non è proprio cosa semplicissima; ma molto, in questo senso, devono aver pesato anche le ambasciate e i consigli di Gianni Letta. È vero che è un po’ di tempo che l’uomo di raccordo tra Palazzo Chigi e il Colle non sale al Quirinale per colloqui ufficiali col Capo dello Stato: ma non perde nessuna occasione per sondare gli umori di Giorgio Napolitano.

E’ andata così anche un paio di giorni fa, quando Letta e il Presidente si sono incontrati alla presentazione dei diari di Croce, alla Laterza. Il colloquio non è stato lunghissimo, ma è bastato a far capire al sottosegretario alla presidenza che dal Quirinale non sarebbero arrivati ostacoli pregiudiziali alla legge ma nemmeno sconti di alcun genere: un modo per dire «non fate affidamento su una mia firma se il testo non verrà modificato nei suoi aspetti più discutibili». Quali siano questi aspetti, ieri lo ha fatto intendere bene Giulia Bongiorno, che ha proposto correzioni al testo nient’affatto marginali. Insomma, come si ipotizzava, alla Camera è cominciata un’altra partita, assai diversa da quella giocata al Senato. Come finirà? E’ presto per dirlo. Tanto presto che forse se ne riparlerà tra settembre e ottobre…

La Stampa 18.06.10