lavoro

"Pomigliano, la rieducazione della fabbrica anarchica", di Alberto Statera

Nell´impianto napoletano il record nazionale di invalidi, il boom dei doppi lavori e un numero abnorme di furti e di sabotaggi
La sfida di Marchionne allo stabilimento Fiat più assenteista e meno efficiente è visto come il simbolo di una nuova offensiva anti-operaia.

Nel Palazzo dell’Orologio di questo confuso e accaldato borgo al confine partenopeo, dove tra alti strepiti si è appena consumata la frattura a sinistra tra la Cgil e l’ex costola della Fiom, tra sindacato contrattualista neocorporativo e sindacato antagonista, il pendolo rintocca fra tardo-fordismo e marchionismo, la nuova via italiana al toyotismo.

Dice una pasionaria Fiom: Marchionne ha un po´ ragione ma noi non abbiamo scelta.

Il laureato alla catena di montaggio: “Il carico di lavoro salirà fortemente”
C´è chi parla di luddismo e favoleggia di una 159 montata con due sedili diversi

Sergio Marchionne l´italo-canadese-svizzero accreditato fin qui da una pubblicistica piuttosto generosa di sentimenti socialdemocratici, se non proprio delle stimmate da erede di Adriano Olivetti e della fabbrica felice, è evidente che non disdegna le sfide. E, aspirante cavaliere senza macchia nell´Italia post-keynesana, ha scelto Pomigliano d´Arco, lo stabilimento Fiat marchiato d´infamia, per fiaccare la «strutturale resistenza operaia all´erogazione del lavoro», come la definì Frederick Winslow Taylor. Forse sarà la sfida che cambierà (ma in meglio?) la metrica delle relazioni industriali nel capitalismo italiano per il suo l´alto valore simbolico, che molti vogliono paragonabile a quello della Marcia dei Quarantamila colletti bianchi della Fiat nell´ottobre del 1980. Ciò che fa esultare la Trimurti governativa incarnata da Giulio Tremonti, Maurizio Sacconi e Renato Brunetta, gratifica alquanto la presidente della Confindustria Emma Marcegaglia, e getta, come al solito, scompiglio a sinistra, dove gli antagonisti, da Fausto Bertinotti a Nichi Vendola, diventano più antagonisti e i riformisti, da Pierluigi Bersani a Walter Veltroni fino al Fiatologo Piero Fassino, giudicano con monsieur de Lapalisse che è meglio lavorare peggio in una futura fabbrica marchionizzata con 700 milioni d´investimento per trasportarvi dalla Polonia la linea della nuova Panda, che non lavorare per niente, lasciando scadere le rate del mutuo e non potendo comprare i libri per la scuola dei figli.
Questa fabbrica, oggi intitolata – corsi e ricorsi della storia – a Gian Battista Vico, realizzata a un passo da Napoli a partire dal 1968, quando infuriava l´autunno caldo, Cesare Romiti la definì «un bastone gettato dall´Iri e dalla Democrazia cristiana tra le gambe della Fiat». Una scelta tutta politica fatta non «per», ma «contro la Fiat», che pure godè di ottimi incentivi, per ingraziarsi le clientele meridionali. Non aveva alcun senso, secondo l´ex amministratore delegato, che l´Alfa Romeo, produttrice di auto di qualità si mettesse a farne di massa come l´Alfasud, che pure diventò un modello da Amarcord. Nacque male Pomigliano e crebbe peggio, con il più basso tasso di produttività, il più alto di assenteismo, soprattutto in coincidenza con le partite del Napoli Calcio (fino al 24 per cento), il venerdì, o sotto elezioni, quando c´è l´occasione di fare i rappresentanti di lista. L´ultima volta pare siano stati 2800, oltre la metà della forza lavoro a disertare la catena di montaggio. E poi il record nazionale di invalidi, i doppi lavori, i furti e i difetti nelle auto prodotte, che per decenni hanno fatto impazzire i concessionari. Il tutto con episodi di luddismo e di sabotaggio sul prodotto, alcuni dei quali degni dell´impareggiabile genio napoletano. Come quello che ricorre nella leggenda metropolitana dell´Alfa 159 uscita con due sedili diversi, icona automobilistica di un ribellismo che l´italo – canadese in maglioncino blu pensa adesso di poter debellare con il toyotismo spinto.
La «rieducazione» Marchionne la tentò già nel 2008, buttandoci sopra 110 milioni di euro. Chiuse la fabbrica per due mesi, la fece ripitturare, non più rosso, ma grigio e azzurro, e mise cinquemila operai a studiare la WCM, World Class Manifacturing, raccomandata dal professore giapponese Hajime Yamashina, teorico del lavoro operaio nel secolo della globalizzazione, dell´eccellenza nell´intero ciclo logistico-produttivo, dell´eliminazione di ogni «muda» (perdita in giapponese), oggi ben piazzato come consulente di grandi imprese italiane. Trecento assenteisti o scalmanati furono trasferiti (deportati, dicono qui sia i moderati della Cgil che gli antagonisti della Fiom) in un capannone di logistica soprannominato «L´isola dei famosi» a Nola, all´ombra del «Vesuviello», o «Vulcano buono», il megacentro commerciale che Renzo Piano ha realizzato per conto del Cis di Gianni Punzo, l´amico napoletano di Luca di Montezemolo. Tra loro, entrambi i figli di un vecchio ex caposquadra Verniciatura, oggi in pensione, che non esita a dire, coperto dall´anonimato: «I miei figli se lo sono meritato». Poco lavoro e troppa discoteca, e non solo al venerdì. Non certo i soli ballerini, visto che l´età media in tutti i reparti è sotto i 40 anni. «Pomigliano è un bel Castello – filosofeggia Carmela Abbazia, trentottenne pasionaria della Fiom con tre figli e compagno che vive a Milano, la quale non può certo comprare la Panda che contribuirà a produrre, certificando il fallimento di uno degli elementi del fordismo – chi è fuori vuole entrare, chi è dentro vuole uscire». E poi ci stupisce con un ditirambo imprevisto a favore di Marchionne: «Per lui ho ammirazione e stima, capisco bene quel che vuol fare, un tantinello di ragione ce l´ha, ma sa perché sono frustrata? Perché in questa partita ho una spada nel fianco e non in pugno come lui. Non ho nessuna possibilità di scelta, come in caserma agli ordini del caporale».
Riaperto a marzo del 2008, Pomigliano non brillò mai per eccellenza. I topi continuarono a scorrazzare in mensa e a rintanarsi nelle centraline elettriche, come documentano i filmati su Youtube, e si rischiò lo sciopero della zoccola. Le assenze non scemarono abbastanza, continuò qualche furto. E´ rimasto negli annali quello di qualche centinaio di sonde lambda, un pezzo assai costoso, che fu messo in vendita sottocosto sul mercato partenopeo.
Anche gli operai migliori, non quelli al seguito del sindacalismo anarcoide che abitano nella cittadella fortificata dal radicalismo, ma quelli che riescono con molta fatica – perché nessuno può dimenticare che lavorare qui dentro à vera fatica – a dare un tocco umano all´automazione, non negano che molti di loro, pur alieni da nefandezze gravi, non sono puntuali. Fumano sul lavoro, prendono il caffè, mangiano la pizza al taglio, qualche volta consumano o addirittura spacciano droghe. Incompatibile, tutto incompatibile con la cronotecnica e con la «Lean production», la fabbrica snella che Marchionne vuole creare qui investendoci 700 milioni, nonostante l´orrida e falsa pregiudiziale antropologica, quella che vuole i napoletani peggio dei polacchi, votati all´indisciplina, all´anarchismo che sarebbe iscritto nel loro Dna. Una tesi insopportabile persino nella bocca senza freni del ministro antifannulloni Renato Brunetta.
«Metamorfosi di una fabbrica in bilico sul filo rosso che unisce passato e presente», ha intitolato un po´ verbosamente la sua tesi di laurea Giuseppe Dinarelli, uno dei tre laureati (con un 70 per cento di diplomati in tutta la fabbrica) che lavora alla catena di montaggio. Meglio lui, per la verità, di qualsiasi guru giapponese assoldato dal Lingotto. Dinarelli ci dà il senso dell´operazione che tenta Marchionne, riassumendola nella filosofia toyotista dei 6 zeri: zero stock, zero difetti, zero tempi morti, zero conflitti, zero tempi di attesa per il cliente, zero cartacce. O in quella della caccia ai 7 sprechi: sovrapproduzione, tempi morti, processi lavorativi inutili, stoccaggio eccessivo, movimenti inutili, produzione pezzi difettosi. Bello. Una magnifica razionalizzazione partenopea, che però comporta un aumento dei carichi di lavoro e dell´alienazione, «in uno schiacciasassi che non lascia spazio al respiro», dice il dottore-operaio appassionato, che cerca di dare un tocco umano alla sua catena di montaggio.
Sotto l´orologio di Pomigliano, tra sindacalisti diplomatici e sindacalisti antagonisti superincazzati, non c´è chi non abbia capito infine come batte il pendolo della neostoria del capitalismo globale: se i diritti degli operai aumentano forse un po´ nel Terzo Mondo, si assottigliano di conserva e paradossalmente nel Primo. Ma dite a Tremonti e ai suoi, per favore, che seppure ne uscirà depotenziata la contrattazione a livello nazionale tra gli interessi corporati, il conflitto tra capitale e lavoro non finisce qui martedì prossimo con il referendum sul Marchio-Toyotismo.

La Repubblica 18.06.10