attualità, politica italiana

"La legge-bavaglio dimostra che Berlusconi si può fermare", di Giuseppe D'Avanzo

Dunque, si può. Berlusconi può essere fermato, può essere costretto a precipitose ritirate. La sua ambizione cesaristica e il progetto post-costituzionale che l´accompagna si possono costringere nel solco dei principi costituzionali (del loro rispetto). È la buona notizia di questa storia della legge contro le intercettazioni (purtroppo ce n´è anche una cattiva) e vale la pena ragionarci su perché il congelamento (sine die?) di una legge liberticida e criminogena indica in modo scintillante un paio di cose non trascurabili o che molti hanno trascurato e trascurano ancora oggi. Berlusconi non è il nostro Destino. Non è il Fato cui dobbiamo inchinarci, rassegnati, disposti a sopportare tutto, silenziosi perché travolti dalla “rassicurante frustrazione” di chi è stato espropriato finanche della capacità espressiva per rappresentare il proprio disagio. In questa occasione, un´opinione pubblica critica, ampi settori del mondo dell´informazione – questo giornale e i suoi lettori in testa – , segmenti non irrilevanti della maggioranza, qualche presidio istituzionale e addirittura un´opposizione che ritrova le ragioni del suo esistere hanno trovato la forza di obbiettare il proprio dissenso sentendo come un sopruso quella legge.
Come una vergogna non opporvicisi; come un dovere civico impedire la distruzione del diritto dei cittadini alla sicurezza e all´informazione. Se Berlusconi non è una necessità ineluttabile, non è scritto allora nella pietra che la nostra democrazia debba essere fatalmente affidata a chi come il Cavaliere «vince di default e governa attraverso la demoralizzazione cinica» (Slavoj Zizek).
Sono due convincimenti che da oggi bisogna coltivare con cura e impegno perché la sconfitta che Berlusconi incassa non è soltanto lo stop a un disegno di legge. Il passo falso di oggi è anche il tracollo di un´idea politica che attribuisce il potere di una “decisione assoluta” a chi governa perché solo il comando diretto e indiscusso può assicurare la “governabilità” del Paese. Chi dissente da questo paradigma di governo o soltanto lo limita per dovere istituzionale o lo vaglia per impegno professionale e civile diventa – in questo quadro politico e, se si vuole, psicologico – il pericoloso agente del declino da affrontare. Ecco perché, nello slittamento del legittimo esercizio del potere verso un arbitrario diritto alla forza, Berlusconi avverte da sempre come un obbligo improrogabile intervenire contro la magistratura limitando l´uso delle intercettazioni o contro l´informazione promettendo il bavaglio a chi pubblica il testo di “un ascolto”.
Magistratura e informazione – i due ordini che, in un´equilibrata architettura di checks and balances, sono le istituzioni di controllo dei poteri – diventano «nemici» da ridurre a uno stato di costrizione perché impediscono al sovrano di governare, perché sorvegliano le sue decisioni e quella vigilanza è un ostacolo che crea uno status necessitatis, l´urgenza di un provvedimento legislativo che Berlusconi – va ricordato – avrebbe voluto fin dal quinto Consiglio dei ministri del suo governo con immediata forza di legge, costretto a una marcia indietro dal Capo dello Stato e dalla Lega, che avrebbe dovuto spiegare alla sua gente di aver negato le intercettazioni per i reati contro la pubblica amministrazione.
Se la bocciatura del disegno di legge è anche la sconfitta di un´idea politica, si deve osservare che le nuove regole avrebbero voluto, sì, appesantire l´investigazione con intralci, intoppi, bizzarri obblighi soltanto per proteggere le pratiche più spregiudicate dei colletti bianchi, rendendo più fragile la sicurezza dei più deboli, senza proteggere davvero alcuna privacy, ma quella legge avrebbe dovuto codificare una sorta di «diritto positivo della crisi» che impone ossequio alla funzionalità delle decisione politica e dunque il silenzio ai giornalisti, onerose penitenze economiche agli editori non conformi e un´innocua agenda di lavoro al pubblico ministero.
Questo “presepio” non è piaciuto perché ridisegna una nuova forma costituzionale con un governo abusivamente armato di più poteri e un cittadino abusivamente privato dei suoi diritti. Il progetto fallisce non per l´inettitudine politica di Berlusconi, come argomenta Giuliano Ferrara, ma al contrario per l´abbagliante riverbero della sua politicità. Il Cavaliere posa ad antipolitico, ma chi può credergli? Alla politica classica la dignità che egli non riconosce, che palesemente disprezza è di stare al di là e al di sopra degli interessi particolari che agitano la società civile. Per il capo del governo, la politica non è altro che potere pubblico esercitato senza scrupoli a protezione, innanzitutto, dei propri interessi economici e, poi, dei gruppi, ceti, lobby che lo sostengono. È questa convinzione che rende necessaria la pretesa di immunizzarsi da ogni controllo; di rendere Legge la sua persona e le sue convenienze personali; indiscutibili le sue decisioni e scelte anche quando nomina un socius ministro soltanto per sottrarlo alla giustizia (è il caso di Aldo Brancher). I controlli della magistratura, dell´informazione hanno scovato e mostrato che cosa nasconde l´illusionismo pubblicitario del Cavaliere. Hanno ricomposto una realtà dissolta dal dominio mediatico del governo, illuminato il conflitto d´interessi che strangola il servizio pubblico della Rai, rivelato le miserie e il vuoto della sua affabulazione, la corruzione nascosta nel modello del trauma e del miracolo, dell´emergenza risolta con un prodigio. È infatti lo scandalo della Protezione civile che ha convinto Berlusconi a giurare il pubblico «mai più intercettazioni» perché quel sistema, affidato alla leadership amministrativa di Gianni Letta e alla guida tecnocratica di Bertolaso, è il prototipo del potere che egli pretende. È il dispositivo che anche pubblicamente egli invoca quando dice: «Per governare questo Paese ho bisogno dei poteri della Protezione civile».
È la politicità di questo disegno dunque che è stata rifiutata: questa volta non tutti hanno creduto che i personali interessi di Silvio Berlusconi fossero gli interessi del Paese e del “popolo” e meno che mai una battaglia per il diritto alla privacy. Il Cavaliere ha dovuto prendere atto che forzare la mano avrebbe messo a serio rischio il suo governo, le alleanze, il suo prestigio. È una buona notizia. Il programma di andare oltre la democrazia parlamentare verso un governo legittimato dal carisma e dal potere del Sovrano è stato fermato. È un buon inizio anche per affrontare la cattiva notizia. Berlusconi ci riproverà. Non ha altra alternativa per conservare se stesso che dissolvere non solo nei fatti, ma anche formalmente, l´equilibrio costituzionale e il principio di legalità. Sarà la battaglia d´autunno e ci sarà modo di parlarne.

La Repubblica 19.08.10

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I paletti della Bongiorno “fuoco amico” nel Pdl, di Grignetti Francesco

Procede soave, Giulia Bongiorno, ma implacabile. Spetta a lei fare la relazione alla commissione Giustizia sul ddl Intercettazioni per come è tornato alla Camera dal Senato, e la pi fidata consigliere di Gianfranco Fini demolisce un pezzo alla volta il testo che è uscito da Palazzo Ma- dama con il sigillo dell’ufficio di presidenza del Pdl. Esordio cauto: «Ci sono soluzioni che condivido pienamente, su altre invece avanzo dei suggerimenti al governo». E guarda caso i «suggerimenti» della Bongiorno ricalcano pressoché integralmente quanto filtra dal Quirinale. In commissione l’ascoltano tutti a bocca aperta: quelli della maggioranza perché presi in contropiede da una tale gragnuola di critiche, quelli dell’opposizione perché piacevolmente sorpresa. E al termine, un berlusconiano doc come Enrico Costa, capogruppo Pdl in commissione, dice: «Osservazioni avanzate a titolo personale. La sua relazione non è affatto neutra».

Non era mai successo che un relatore di maggioranza fosse sconfessata così platealmente. Ma la partita è solo agli inizi e c’è un possibile sbocco assai sgradito al Pdl: se la Bongiorno trasformerà i suoi «suggerimenti» in altrettanti emendamenti, può la maggioranza bocciarli serenamente perché l’indicazione è di far presto e non tornare al Senato? Il sottosegretario Giacomo Caliendo è un altro che ieri ascoltava abbastanza seccato. E’ reduce da una battaglia al Senato per salvare questo testo, ora si ricomincia con il fuoco amico. Per ciò sorrideva e diceva sornione: «C’è tutto il tempo per riflettere. D’altra parte alla Camera avevamo fissato un termine di 60 giorni e andava bene. Al Senato siamo passati a 75 giorni pùi le proroghe rinnovabili di 72 ore. Come vedete, sui tempi già siamo intervenuti una volta…».

Ma l’elenco dei suggerimenti di Giulia Bongorno è lungo. Si inizia con la questicone della proroga oltre i 75 giorni canonici, proroga straordinaria di tre giorni in tre giorni: «Se è vero che un tribunale collegiale assicura quella ponderazione che a volte non assicura il singolo magistrato, rispetto a una procedura di questo genere un tribunale collegiale potrebbe creare problemi di impatto». Questione poi da collegare ai cosiddetti reati-satellite delle associazioni mafiose, i cui termini secondo i finiani sono troppo stretti: «Intervenendo su questo punto si potrebbero superare anche quelle problematiche». E qui non solo Idv e Pd hanno annuito, ma s’è aggiunto anche un deputato leghista, Luca Paolini, che ha definito «poco pratico» il meccanismo della proroga di 72 ore in 72 ore.

Sulle multe per gli editori, poi, la Bongiorno è tornata a chiedere altre modifiche: «Mi chiedo quanto sia ammissibile la responsabilità delle persone giuridiche in materia di stampa e quanto sia conciliabile con la libertà del singolo direttore». Al Senato è stata poi inserita una prerogativa in più per i parlamentari: sarebbe necessaria l’autorizzazione all’intercettazione anche quando capita d’imbattersi nell’ascolto di un parlamentare su un’utenza terza. «Si tratta di capire come si possa chiedere ex ante un’autorizzazione rispetto ad un’ipotesi che non si può prefigurare in anticipo. E poi ci sono problemi di possibile conflitto con una recente sentenza della corte costituzionale». Abbastanza liquidatoria, invece, la Bongiorno, su una ipotesi cara al Pd e ai giornalisti, e cioè la cosiddetta udienza-stralcio in cui un giudice, sentite le parti, dovrebbe stabilire quali intercettazioni devono rimanere segrete e quali sono pubblicabili. «Un’udienzetta… è già prevista e non è applicata».

Infine il comma D’Addario, novità introdotta al Senato, ovvero il reato di riprese e registrazioni fraudolente punibile a querela della persona offesa con la pena da 6 mesi a 4 anni: sulla «congruità» e «ragionevolezza» della pena, la parlamentare ricorda che fece delle osservazioni anche la commissione Affari Costituzionali del Senato.

La Stampa 18.06.10