attualità, politica italiana

«Il Federalismo senza autonomia», di Ilvo Diamanti

Alla vigilia del raduno di Pontida, è arrivato anche il “Ministero al Federalismo”. Tanto per chiarire che la via è segnata e senza ritorno. Verso una Repubblica federalista, dove la Padania conquisterà nuovi poteri

NUOVA e ulteriore autonomia. Come la Catalogna oppure la Baviera. Mentre si celebra la marcia inarrestabile verso il federalismo, però, sindaci e governatori del Nord, del Centro e del Sud, di destra e di sinistra, e anche della Lega: sono in rivolta. Tutti. Uniti contro la manovra economica del governo, responsabile di sottrarre risorse e autonomia ai Comuni e alle Regioni. Da ciò il paradosso di questa fase. Nella quale il federalismo procede insieme al centralismo statale. Entrambi ad alta velocità: rischiano di finire uno contro l’altro.

Certo, l’Italia è un “Paese provvisorio”, per citare Edmondo Berselli. In perenne transizione. Impegnato a riformarsi. E, nello stesso tempo, a frenare gli effetti delle riforme. Oppure ad adattarle, su base familista e localista. D’altronde, i partiti di massa della Prima Repubblica avevano orizzonti nazionali e internazionali e, insieme, un’organizzazione plasmata sulle differenze locali. Il Pci e la Dc. Capaci di promettere la società senza classi e il socialismo, di evocare la dottrina sociale cristiana e di fare appello ai “liberi e forti”. Ma, soprattutto, di mediare le rivendicazioni locali e di rappresentare il territorio senza farvi esplicito riferimento. Nella Seconda Repubblica tutto è cambiato. Il territorio è divenuto una bandiera, in quest’epoca senza ideologie, con poca fiducia e poca fede. Oggi tutti evocano il territorio, come un mantra. Non solo la Lega Nord per l’indipendenza della Padania. C’è anche il Partito del Sud, al cui interno
militano numerosi esponenti, soprattutto di centrodestra. In Sicilia. Ma l’appello al territorio echeggia anche a Sinistra.

Come dimostra il richiamo, frequente, di Nichi Vendola all’orgoglio pugliese e “meridiano”. Ma sta montando anche l’orgoglio dell'”Italia di mezzo”, per iniziativa di molti amministratori (perlopiù di sinistra) che, a Perugia, un mese fa, hanno promosso gli Stati Generali dell’Italia Centrale. Insomma, è come se le divisioni politiche tradizionali si fossero tradotte e trasferite sul piano territoriale. Non più destra, centro e sinistra. Ma Nord, Centro e Sud.
L’importanza – simbolica e politica – delle realtà locali è apparsa evidente in occasione della manovra finanziaria del governo, che aveva previsto l’abolizione delle province più piccole (meno di 200mila abitanti). Una scelta coraggiosa, in un Paese dove le province, negli ultimi trent’anni, da quando cioè si parla di abolirle tutte, sono passate da 95 a 110. Ma anche un freno contro una frammentazione istituzionale che produce dissipazione di risorse e crescita incontrollata della spesa pubblica. Naturalmente non se ne è fatto nulla. La decisione è stata contrastata e ritirata, soprattutto per iniziativa della Lega. In nome dell’autonomia territoriale.

Le tensioni fra lo Stato e il territorio, tuttavia, non sono cessate e sono destinate ad acuirsi. Soprattutto fra i partiti di governo, ma anche al loro interno. Anzitutto perché si sono accentuate le ragioni del contrasto geopolitico e geoeconomico fra la Lega Nord e il Pdl, il cui bacino elettorale si è progressivamente spostato verso Sud. Il federalismo fiscale rischia di allargare le tensioni tra le aree del Paese. Come emerge, d’altronde, dagli stessi atteggiamenti sociali. Nel Mezzogiorno (sondaggio Demos, giugno 2010) il 31% dei cittadini pensa che il federalismo fiscale peggiorerà le cose, per la sua regione, il 18% che le cambierà in meglio. Al contrario, nel Nord “padano”, il 43% dei cittadini, dal federalismo fiscale, si attende effetti positivi, solo l’8% negativi. Nel Nordest l’atteggiamento verso il federalismo è ancor più positivo.

In provincia di Vicenza (sondaggio di Demos per l’Associazione Industriali) è valutato con favore dal 63% della popolazione. Che, anzi, lo considera una sorta di rimedio universale, che produrrà: meno tasse, più poteri, servizi più ampi e qualificati. Il che alimenta attese pericolose, impossibili da soddisfare. Perché i governatori e i sindaci – tutti, senza differenze politiche e territoriali – dovranno affrontare uno squilibrio evidente e lacerante. Hanno assunto grande visibilità, poteri e competenze crescenti, mentre le risorse disponibili sono calate e continuano a calare in misura sensibile. Tanto più oggi, che lo Stato federale deve fare i conti anzitutto con lo Stato di necessità. Il “rigore colbertista” di Tremonti, dettato dalla crisi economica e finanziaria globale, cozza contro la promessa federalista.

Anche da ciò dipendono i continui conflitti simbolici promossi dalla Lega: sul tricolore, sull’unità d’Italia, sull’inno, sulla nazionale di calcio. Servono a spostare l’attenzione sull’identità, visto che sul piano degli interessi è difficile attendersi risultati concreti, nel prossimo futuro. Peraltro, il successo della Lega dipende, in misura significativa, anche dalla capacità di presentarsi come opposizione e governo, al tempo stesso. Il sindacalista del Nord: a Roma. Il movimento di liberazione da Roma: nel Nord. Ma questo gioco oggi diventa complicato, perché la Lega è al governo praticamente “ovunque”. A Roma e nel Nord. Dove guida 2 Regioni, 14 province e oltre 350 comuni. Mentre al governo gestisce alcuni ministeri-chiave.

E nei giorni scorsi ne ha imposto uno nuovo, di bandiera, dedicato all'”Attuazione del Federalismo”. (Tanto per contraddire i dubbi, al proposito). Attribuito a Brancher. Un “forzaleghista”. Ma il contrasto fra la promessa federalista e la logica centralista, esercitata da Tremonti, difficilmente potrà ridimensionarsi, nel prossimo futuro. Vista l’emergenza economica e finanziaria. Il conflitto fra il Nord e Roma, fra la Padania e l’Italia rischia, dunque, di riprodursi e di porre la Lega in aperto conflitto con se stessa. Da ciò uno scenario che Mao avrebbe definito “eccellente”. Visto che “grande è la confusione sotto il cielo”. In questo “Paese provvisorio”, capace di riforme istituzionali ardite, impensabili altrove. Il Federalismo Centralista. Il Localismo Statalista. L’Autonomismo Romano. Manca solo il Comunismo Anticomunista. Ma abbiamo già l’Anticomunismo senza il Comunismo. Basta avere un po’ di pazienza.
da www.repubblica.it