economia, lavoro

"Esercizio di responsabilità", di Ezio Mauro

All’improvviso, tutto il Paese ha guardato al referendum di una fabbrica del Sud come a un moderno giudizio di Dio. Dunque gli “invisibili” esistono, contano e pesano, quando prendono la parola, sia pure in condizioni estreme: e l’operaio e l’officina tornano a sorpresa ad essere un soggetto e un luogo politico, in questa Italia 2010, che pure credeva di aver cambiato per sempre il palinsesto. Avevamo dimenticato i produttori, soverchiati dai consumatori, come attori sociali e culturali. Avevamo inseguito le meteore dell’immateriale, avevamo nascosto addirittura il vecchio concetto di lavoro dietro le nuove rappresentazioni dei saperi, delle competenze, della professionalità. E invece quando l’impresa vuol fare i conti con la globalizzazione, deve farli anche con il lavoro, e addirittura con i lavoratori. Quel giudizio di Dio è stato al contrario un esercizio di responsabilità. Ha vinto il “sì”, e nettamente, perché davanti alla possibilità di un investimento industriale che risale al contrario il percorso tipico della società globale (cercare lo sviluppo fuori dai confini del vecchio Stato-nazione, per scaricare invece i problemi che ne nascono sulla rete statale e nazionale) l’istinto di sopravvivenza ha portato la maggioranza dei lavoratori ad approvare il piano Fiat, com’era inevitabile.

Ma la forte percentuale di “no” significa che lo scambio tra lavoro e diritti inquieta e non convince le persone coinvolte, che chiedono di tenere il dossier spalancato, per continuare a discutere e negoziare. C´è un problema aperto a Pomigliano, il giorno dopo.
Ora la Fiat fa capire che il risultato la delude, anche perché non la copre politicamente dal rischio di una valanga di ricorsi sui diritti che l´accordo mette in gioco. Il piano “A”, cioè lo spostamento a Pomigliano della nuova Panda dallo stabilimento polacco di Tychy, garantendo con le nuove regole dell´accordo separato un investimento da 700 milioni di euro, per l´azienda è in forse. Si pensa al cosiddetto piano “C”, che prevede di chiudere Pomigliano e riaprirlo, con una newco, cioè una nuova società che riassuma tutti i lavoratori con il contratto firmato nell´intesa separata.
Diciamo subito che dopo aver caricato di tante attese e di significati epocali questo referendum, le parti dovrebbero sentirsi tutte vincolate al quadro d´intesa che è stato sottoposto al voto. Il risultato obbliga tutti. “Lavoreremo con i sindacati che si sono assunti la responsabilità dell´accordo”, dice la Fiat per individuare e attuare insieme “le condizioni di governabilità necessarie per realizzare i progetti futuri”. Questo significa escludere la Fiom, che ha detto no e non ha firmato l´intesa, da ogni negoziato e da ogni verifica per l´attuazione dell´accordo? È praticamente impossibile, se si pensa che un lavoratore su tre ha condiviso quella posizione. La gestione del nuovo patto diventerebbe impraticabile nella quotidianità e nella materialità della fabbrica.
L´unica strada ragionevole, a questo punto, è l´apertura di un confronto che abbia alla base il risultato non equivoco del referendum, e cioè l´accettazione di un piano che è passato al vaglio del voto. Tenendo conto che ci sono modifiche possibili, capaci di salvare le ragioni imprenditoriali di produttività, di efficienza e di garanzia dell´investimento e di includere nell´intesa quel terzo di lavoratori che ha seguito la Fiom nel suo “no”.
La Fiat fino ad oggi ha messo in campo ragioni di competitività, di compatibilità, di opportunità offerte altrove dal mercato globale. Deve valutare se intende restare su quel terreno che ha contraddistinto l´era di Marchionne, oppure se vuole fare politica, usando Pomigliano come test di una redifinizione non tanto dei rapporti tra produzione e capitale, ma tra lavoratori e impresa, attraverso il ruolo e lo spazio del sindacato. Chi ha parlato con i vertici del Lingotto in questi giorni, ha avvertito una presa di distanza dagli opposti ideologismi in campo, nel governo e nella Fiom. Si tratta adesso di considerare il risultato del referendum, i suoi “sì” e i suoi “no” anche alla luce della ridotta quota di libertà che avevano i lavoratori davanti a un´urna che poteva decretare la cancellazione della loro fabbrica e del loro futuro. Da qui può nascere una tutela delle necessità dell´azienda, coniugata con uno sforzo di responsabilità. E´ vero che Marchionne vive nel Dopo Cristo, e questo gli ha consentito di ribaltare una società fallita, ma è anche vero che lui e i suoi uomini non possono ignorare che l´Italia non è per la Fiat un Paese qualsiasi, anche considerando quanto lo Stato ha fatto per Torino.
Nello stesso tempo, un esercizio di responsabilità è necessario anche per la Fiom. Nel “sì” come nel “no” operaio c´è la coscienza del limite a cui è arrivato il confronto di Pomigliano, e il referendum può essere l´occasione di un percorso sindacale di emancipazione partendo proprio dalla compressione dei diritti, che i lavoratori hanno toccato con mano. Ma la forza contrattuale nasce dalla dignità del lavoro e dalla responsabilità che ne consegue: anche per il sindacato. Com´è possibile che la Fiom abbia coperto abusi e distorsioni nel processo produttivo fino a quando Marchionne non li ha usati come denuncia nel confronto di questi giorni?
Sono in campo dopo Pomigliano questioni gigantesche che possono dare al sindacato uno spazio nuovo, e persino formare una nuova coscienza operaia, come si diceva una volta. Perché i vasi comunicanti della globalizzazione che spingono le produzioni verso i mercati emergenti per un dumping favorevole di diritti e di salari, potrebbero funzionare anche in una diversa direzione, estendendo a quei Paesi più poveri la democrazia dei diritti che l´Occidente ha conquistato in più di un secolo, e che fino a ieri considerava acquisiti, parte della sua civiltà materiale e morale, forma stessa del suo modo d´essere. Non pensarlo, non testimoniarlo, significa semplicemente non avere fede nella democrazia, considerarla un concetto relativo, che vale solo alla latitudine occidentale, e non ha valore universale.
Tutto questo dovrebbe valere soprattutto per la politica. Ma quale politica? Pomigliano ha dimostrato clamorosamente che i lavoratori hanno scarsa o nulla rappresentanza, in un´Italia in cui il Presidente del Consiglio corre ad arringare la Federalberghi, si fa applaudire dagli artigiani, abbraccia la Confcommercio. Purtroppo, in questa vicenda il governo ha giocato il ruolo peggiore, gregario e velleitario insieme, all´insegna della pura ideologia: che resiste soltanto in Italia, tra i Paesi europei, e che certo non è uno strumento di risoluzione dei conflitti. I ministri interessati, si sono gettati sull´osso di Pomigliano per un puro ideologismo, cercando riparo nella forza della Fiat per usarla là dove vorrebbero arrivare ma non possono, da soli, e cioè al regolamento finale dei conti con la Fiom e poi con la Cgil. Spaventa vedere un pezzo di governo impegnato nel cuore di una vertenza di portata nazionale esclusivamente per regolare i conti del Novecento, che non è capace di chiudere per via politica, vista la sua mancanza di disegno, di autonomia, di autorità.
E´ questo intervento autoritario e parassitario che ha dato un segno di “classe” all´affare Pomigliano, stupefacente negli anni Duemila. Quei ministri che urlavano al nuovo ordine quando credevano di avere una valanga di voti (altrui) in tasca, ieri mattina erano preoccupati di rimanere con il cerino in mano, se la Fiat si ritirava, e battevano in ritirata, come qualche leader sindacale. Nel piano Fiat di Pomigliano avevano visto e celebrato soprattutto l´attacco al diritto di sciopero, costituzionalmente garantito, per usarlo come testa d´ariete contro la Costituzione, di cui già volevano cambiare l´articolo 41 per cancellare quei “fini sociali” verso i quali va indirizzata l´attività economica secondo la Carta: ignorando che si tratta delle finalità che riguardano il funzionamento del mercato in condizioni corrette di concorrenza, in un sistema di economia di mercato aperto.
Questa ideologia di classe – che tiene insieme l´idea di una democrazia senza libertà d´informazione e l´idea di una Costituzione senza lavoro – non capisce che senza sicurezza materiale non c´è libertà politica, e questo è il senso dell´articolo 1 della Cosituzione, che eleva il lavoro a fondamento della Repubblica. Non solo. Se si scambiano diritti contro lavoro, salta la distinzione stessa tra politica ed economia, cioè viene meno la sovranità democratica e istituzionale della politica, cui tocca fissare la cornice giuridica e sociale che rende legittima l´azione economica e la sua crescita. Salta il tavolo di compensazione dei conflitti, che tiene insieme i vincenti e i perdenti della globalizzazione: fino ad oggi. Salta, infine, il nesso della modernità occidentale così come la conosciamo, il nesso tra capitalismo, Stato sociale, opinione pubblica e democrazia. Il governo ci pensi, provi a salvarsi, e faccia la parte che gli spetta per dare un esito al referendum di Pomigliano.

La Repubblica 24.06.10