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I nuovi occupati da 15 anni vivono con «meno diritti», di Marco Simoni

Negli anni 90, i referendum tra i lavoratori hanno consentito di sostenere accordi nazionali molto discussi. Nell’autunno del 1992, i vertici di CGIL CISL e UIL furono contestati duramente nelle piazze per aver firmato l’accordo del luglio precedente. Al contrario, nessuna contestazione seguì gli accordi del ’93 e del ’95, perché legittimati da referendum, pur approvati con la contrarietà del 30-35% dei lavoratori, dati simili a quelli di Pomigliano. L’esito di quest’ultimo referendum, dunque, non stupisce e non può essere considerato il prodotto di un presunto ricatto da parte della Fiat. Il fatto che i lavoratori, quando interpellati, decidano di accettare compromessi in cambio di una prospettiva più solida è la norma e non un’eccezione: in tutta Europa, negli ultimi vent’anni, tanto maggiore è stato il coinvolgimento dei lavoratori nelle ratifiche di accordi sindacali, tanto maggiore la moderazione della loro politica, attenta alle compatibilità economiche e non solo agli interessi di breve termine.
Sembra tuttavia che il risultato non abbia soddisfatto i vertici Fiat che chiedevano un consenso più unanime per avere una ragionevole aspettativa di successo dei loro piani industriali. Purtroppo, sembrano pochi gli attori in grado di lavorare a una soluzione positiva, a partire dal governo, che porta la responsabilità molto grave di avere politicizzato una questione che si sarebbe dovuta lasciare alla dinamica delle parti sociali.
Tutti ricordano bene le polemiche governative contro la Fiat quando la vicenda di Termini Imerese sembrava impopolare; ora il governo ha deciso, al contrario, di mettere il cappello sulla vicenda di Pomigliano con toni fuori luogo su un presunto significato dell’accordo per le future relazioni industriali. Questo atteggiamento ha avuto la prevedibile conseguenza di impedire un intervento della Cgil nazionale per mediare le posizioni apodittiche del suo sindacato di categoria. In altre parole, il primo interesse del governo non è il successo della ristrutturazione industriale ma la marginalizzazione della Cgil che al momento è il suo principale oppositore sociale.
L’irresponsabilità dei comportamenti del governo, che finalmente sta corrispondendo a un’erosione dei suoi consensi nell’opinione pubblica, si è purtroppo confrontata con un’incredibile debolezza intellettuale non solo della Fiom, tipica interprete di una politica nostalgica, ma di una nutrita schiera di commentatori e politici – da Scalfari a Vendola – intrappolati nella vulgata della globalizzazione cattiva. Questa vulgata, speculare a quella di Sacconi, vede nell’accordo di Pomigliano caratteristiche esemplari che non può avere. Le condizioni patetiche della produttività di quell’impianto, il suo legame con la pessima politica industriale degli anni ’80, la condizione di marginalità di un territorio in gran parte perso all’economia legale e senza una presenza sufficiente dello Stato sono dati che rendono il caso di Pomigliano un caso eccezionale. Senza tener conto di queste condizioni, ogni ragionamento sugli effetti della globalizzazione o sui diritti del lavoro è monco e fuorviante.
Esiste una ricca letteratura che spiega come, nonostante il lavoro a buon mercato della Cina o della Polonia, le imprese abbiano ancora molte ragioni economiche per stabilirsi nei nostri paesi, e il caso in oggetto è sicuramente un buon esempio a meno di pensare che le scelte di Marchionne siano dettate da puro patriottismo. I sindacati conservano, dunque, qualche potere contrattuale che potrebbe essere usato con più accortezza e anche più decisione.
Allo stesso tempo, una vita lavorativa caratterizzata da diritti molto minori di quelli previsti dall’accordo di Pomigliano riguarda da almeno quindici anni la stragrande maggioranza dei nuovi occupati, in tutti i comparti, con l’assenso implicito di tutti i sindacati che non ritengono opportuno nemmeno rispondere alle sollecitazioni giunte a questo proposito da questo giornale.
Considerare dunque i fatti di questi giorni come uno spartiacque non serve né alla loro comprensione, e tantomeno alla costruzione di una ragionevole e possibile politica industriale, sindacale, o di sviluppo.

L’Unità 24.06.10