attualità, politica italiana

"Il predone", di Giuseppe D'Avanzo

Pensiamo ogni volta di aver conosciuto di Berlusconi il volto peggiore, l´intenzione più maligna, la mossa più fraudolenta. Bisogna convincersene, quell´uomo sarà sempre in grado di mostrare un´intenzione ancora più maligna, una mossa ancora più fraudolenta, un volto ancora peggiore. Sappiamo che cosa è e rappresenta la cosa pubblica per il signore di Arcore, non dobbiamo scoprirlo oggi. È l´opportunità di ignorare e distruggere le inchieste giudiziarie che hanno ricostruito con quali metodi e complici e violenze Silvio Berlusconi ha messo insieme il suo impero. Non scopriamo adesso che il signore di Arcore si è fatto Cesare per evitare la galera (lo ha detto in pubblico senza vergogna il suo amico Fedele Confalonieri). E tuttavia, pur consapevoli che il potere berlusconiano sia esercitato in modo esplicito a protezione dei suoi interessi privati, lascia di stucco l´affaire Brancher.
La storia la si conosce. C´è questo signore, Aldo Brancher. Non se ne apprezza un pregio. Si sa che è stato assistente di Confalonieri in Fininvest. Con questo ruolo, tiene i contatti con socialisti e liberali nella prima repubblica. Detto in altro modo, è l´addetto alla loro corruzione. Il pool di Milano documenta nel 1993 che Brancher elargisce 300 milioni di lire al Psi e 300 al segretario del ministro della Sanità liberale (Francesco De Lorenzo) per arraffare a vantaggio della Fininvest un piano pubblicitario dello Stato.

Lo arrestano. Resta tre mesi a san Vittore. Non scuce una frase. Condannato in primo grado e in appello per falso in bilancio e finanziamento illecito, vede la luce in Cassazione grazie alla prescrizione del secondo reato e alla depenalizzazione del primo corrette, l´una e l´altra, dalle leggi “privatistiche” del governo Berlusconi. Il salvataggio del Capo e della Ditta gli vale, a titolo di risarcimento, l´incarico di messo tra il partito del presidente e la Lega di Bossi, uno scranno in Parlamento, un seggio di sottosegretario di governo. E da qualche giorno anche di ministro. Ministro senza incarico, senza missione, senza alcuna utilità per il Paese. Un ministro talmente superfluo che gli cambiano anche la delega dopo la nomina.
Fin dall´annuncio del suo ingresso nel governo, è chiaro a tutti – se non agli ingenui – che Aldo Brancher diventa ministro per un´unica necessità: egli deve opporre nel giudizio che lo vede imputato di appropriazione indebita nel processo Antonveneta il legittimo impedimento che Berlusconi si è affatturato per liberarsi dalle sue rogne giudiziarie. Ora che Brancher chiede di salvarsi dal giudizio perché ministro, anche gli ingenui hanno capito.
C´è qualcosa di umiliante e di illuminante in quest´affaire perché ci mostra in quale abisso di degradazione sono state precipitate le nostre istituzioni. Ci manifesta quale arretramento di secoli la nostra democrazia deve affrontare. Ci dice che le istituzioni coincidono ormai con le persone che le incarnano, anzi con la persona, quel solo uomo – il Cesare di Arcore – che le “possiede” tutte come cosa sua, Ditta sua, nella sua piena disponibilità proprietaria al punto che può eleggere il suo “cavallo” senatore o ministro uno dei suoi complici, pretendendo oggi per il ministro (e domani per il senatore, chissà) la stessa impunità che ha assegnato a se stesso.
Voglio dire che quel che abbiamo sotto gli occhi con il caso Brancher è nitido: il cesarismo, il bonapartismo, il peronismo – chiamatelo come volete – di Silvio Berlusconi non riconosce alle istituzioni, alle funzioni pubbliche dello Stato alcuna oggettività, ma soltanto la soggettività che egli – nel suo potere e volontà – di volta in volta decide di assegnare loro. Il governo è suo, di Berlusconi, perché il popolo glielo ha dato e così del governo ci fa quello che gli pare. Se vuole, lo trasforma – come per Brancher – in una casa dell´impunità per corifei e turiferari. Quel che l´affaire illumina è il lavoro mortale di indebolimento delle istituzioni. Di quelle istituzioni nate per arginare l´abuso e l´istinto di sopraffazione, per garantire sicurezza e stabilità, diffondere fiducia e cooperazione e diventate, nella democrazia plebiscitaria del signore di Arcore, strumento inutile, ferro rugginoso e inservibile.
Se la nomina a ministro può mortificarsi a capriccio e complicità vuol dire che la politica può fare a meno delle istituzioni. Certo, non si possono accantonarle formalmente, ma svuotarle, sì. Di ogni significato, rilevanza, legittimità, come accade al governo con l´uomo diventato ministro per evitare il giudice. Osserviamo ora la scena che Berlusconi ha costruito in questi due anni di governo. Il Parlamento è soltanto l´esecutore muto degli ordini dell´esecutivo. La Corte costituzionale e la magistratura devono essere presto subordinate al comando politico. La presidenza della Repubblica, priva della legittimità popolare, è soltanto un impaccio improprio. Il governo, già consesso obbediente agli ordini del sovrano, diviene ora e addirittura il premio per chi, con il suo servizio al Capo, si è guadagnato il vantaggio di rendersi legibus solutus come il sovrano. Tocchiamo qui con mano il conflitto freddo che si sta consumando tra una concezione della democrazia incardinata nella Costituzione, nei principi di una democrazia liberale basata sull´oggettività delle funzioni pubbliche e la convinzione che il voto popolare renda onnipotenti e consenta ogni mossa anche l´annichilimento delle istituzioni.
Umiliante e illuminante, l´affaire Brancher è anche educativo perché liquida almeno un paio di luoghi comuni del dibattito pubblico, specialmente a sinistra. Chi di fronte alle minacce estorsive del sovrano (o impunità o processo breve che blocca centinaia di migliaia di processi; o impunità o paralisi della macchina giudiziaria) trova sempre conveniente scegliere la “riduzione del danno” e “il male minore” saprà oggi quel che avrebbe già dovuto sapere da tre lustri: il Cesare di Arcore non ha inibizioni. È un predone. Lo guidano i riflessi. Quel che serve, lo trova d´istinto. Se gli si offre un arsenale, lo utilizza, statene certi, perché è ridicolo aspettarsi da Berlusconi self-restraint. Non esisteranno mai mali minori con lui, ma soltanto mali che annunceranno il peggio. Il secondo luogo comune dice che “l´antiberlusconismo non porta da nessuna parte”. L´affaire Brancher conferma che non c´è altra strada che contrastare il berlusconismo se si vuole proteggere il Paese e le sue istituzioni da una prova di forza pre-politica, fuori delle regole che ci siamo dati. È anche questo il caso Brancher, una prova di forza. Che toccherà non solo all´opposizione contrastare. Fini, la Lega, i soliti neutrali potranno subirla senza mettere in gioco la rispettabilità di se stessi?

La Repubblica 25.06.10

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“Legittima indignazione”, di Cesare Martinetti

Ai candidi che consideravano misteriosa la sua nomina, il neoministro Brancher ha tolto ogni illusione impugnando subito il legittimo impedimento: salta il suo processo e ne nasce una legittima indignazione.
Sabato – ha fatto sapere ieri – non potrà essere davanti ai giudici di Milano a rispondere dell’accusa di ricettazione e appropriazione indebita nella scalata all’Antonveneta. Deve organizzare il suo ministero, non ha tempo. Dunque non di politica si doveva almanaccare per tentare di capire i presunti misteri della sua nomina, ma di giustizia. Anzi di fuga dalla giustizia. I peggiori sospetti si sono rivelati fondati.

Sarà dunque «legittimo» – per noi – indignarsi dal momento che ora tutto è chiaro? Aldo Brancher, ex prete ed ex top manager di Fininvest, è stato nominato ministro con una delega che nessuno ha ancora ben capito (forse nemmeno lui) per consentirgli di sottrarsi a un processo sfruttando quel «legittimo impedimento» che conferisce ai membri del governo italiano una prerogativa sconosciuta ai governi di qualsiasi altro Paese a noi vicino per storia e per sistema. In Francia, Germania, Inghilterra, Stati Uniti un ministro sfiorato dal sospetto si dimette; da noi un politico rinviato a giudizio viene fatto ministro in modo da cucirgli addosso la corazza dell’impunità. Ad personam.

Per dotarlo dello scudo ministeriale Silvio Berlusconi ha sfidato la logica, il buon senso e anche la fedeltà all’alleato più fedele, la Lega. Tra il premier e Umberto Bossi si coglie spesso una commedia delle parti destinata al teatro della politica che alla fine si ricompone in una complicità che non viene mai meno. Questa volta, nel nome di Brancher, invece si è andati oltre. Nominato ministro per l’«attuazione del federalismo», parola feticcio della Lega, Brancher s’è dovuto prendere prima l’ostracismo di Bossi, poi gli insulti del popolo di Pontida attizzato dal capo.

Niente federalismo, allora. Lo hanno chiamato «decentramento» aggiungendo la parola «sussidiarietà», così cara a Cl. L’importante era che Brancher diventasse ministro di qualcosa. Ma riguardate la fotografia del suo giuramento: lui è sorridente, Giorgio Napolitano invece ha lo sguardo basso come chi deve trangugiare un boccone di cui farebbe volentieri a meno. Nulla poteva eccepire il Capo dello Stato alla nomina di un ministro «senza portafoglio». Ma gli era fin troppo evidente che si trattava di una messinscena. Come s’è visto ieri. E proprio al Quirinale mercoledì sera ha voluto recarsi Umberto Bossi per un colloquio con il Capo dello Stato che – ha raccontato ieri su La Stampa Federico Geremicca – ha avuto toni più che preoccupati per l’insieme della situazione politica. La grottesca nomina di Brancher era la testimonianza dei torbidi.

Ma di quale segreto sarà mai la cassaforte questo Aldo Brancher destinatario di un tale privilegio? Le cronache di Tangentopoli rammentano che quando venne arrestato – da manager Fininvest – per finanziamento illecito del Psi di Craxi, lo stesso Brancher fu oggetto di un’attenzione mistica da parte del suo datore di lavoro. Fu lo stesso Berlusconi a raccontare che insieme a Fedele Confalonieri fece spesso il giro in macchina intorno al carcere di San Vittore dov’era recluso Brancher per mettersi «in comunicazione con lui». Ora che sono tutti e due al governo le comunicazioni sono più semplici. E i misteri sempre più fitti.

La Stampa 25.06.10