attualità, politica italiana

"Il boomerang finale dell´aldo longobardo", di Eugenio Scalfari

Nella società tribale dei longobardi, tra il servo e l´uomo libero esisteva una categoria intermedia: quella degli “aldi”. L´”aldo” era in qualche modo simile al liberto romano, ma con una notevole differenza: il liberto era uno schiavo liberato; in quanto tale aveva l´obbligo non solo morale ma addirittura giuridico di restar fedele alla “gens” cui apparteneva il suo liberatore. L´”aldo” invece non era stato beneficiario d´una vera e propria liberazione: semplicemente non era più soggetto alle limitazioni dei servi, si poteva muovere liberamente sul territorio e poteva anche svolgere affari e negozi in proprio nome, ma doveva fedeltà e obbedienza assoluta al suo padrone, assisterlo, rappresentarlo e battersi per lui e soltanto per lui. La volontà del suo padrone era la sola sua legge.
Queste cose pensavo quando Aldo Brancher è asceso nei giorni scorsi agli onori della cronaca. Chi meglio di lui raffigura l´”aldo” longobardo? Chi più di lui ha rappresentato il suo padrone ed ha stipulato negozi per lui? Negozi di alta politica (snodo di collegamento tra Berlusconi e la Lega) e negozi di sordidi affari (pagamenti in nero destinati a fini di corruzione di partiti, uomini politici, dirigenti amministrativi, imprenditori)?
Dalle accuse relative ad un periodo lontano, quando Berlusconi non era ancora entrato in politica e tanto più abbisognava di alleanze e coperture politico-affaristiche, Aldo Brancher si era liberato con la prescrizione raccorciata, disposta da una delle tante leggi “ad personam” volute dal Berlusconi ormai capo d´un partito e del governo, nonché con l´abolizione del reato di falso in bilancio, che gli era stato contestato dai magistrati della pubblica accusa.
Del reato di appropriazione indebita per il quale è perseguito in relazione alla scalata della banca “Antonveneta” avrebbe dovuto liberarlo la nomina a ministro varata nei giorni scorsi: nelle intenzioni di Berlusconi avrebbe dovuto consentirgli di valersi del legittimo impedimento disposto pochi mesi fa da un´altra legge “personale” destinata a sottrarre il premier ed i suoi ministri dai rigori processuali in attesa del lodo Alfano già in discussione in Parlamento.
Invece il caso Brancher è diventato un boomerang nei confronti di Berlusconi, del suo governo, delle sue alleanze, della compattezza della sua maggioranza; ha creato un profondo dissapore con Bossi e soprattutto con i leghisti, con Fini e soprattutto con i finiani, con un´opinione pubblica sempre più disamorata e critica. Ma principalmente un dissapore con il Quirinale.
Non era ancora mai accaduto che Napolitano entrasse a piedi uniti in un dibattito costituzionale con risvolti così direttamente politici. Non era mai accaduto che la natura profondamente padronale del potere berlusconiano fosse denunciata politicamente dalla più alta autorità dello Stato con parole che non consentono interpretazioni di sorta.
Ora il “boomerang” ha compiuto la sua traiettoria ed ha colpito non tanto Brancher quanto il suo padrone di cui da 25 anni è l´”aldo”. La situazione di crisi che si è aperta è forse la più grave fin qui vissuta dal berlusconismo. Per le ragioni che l´hanno provocata. Per il momento in cui avviene. Per le sue possibili conseguenze sulle crepe sempre più vistose di quello che è stato finora un blocco sociale e politico e che rischia adesso di andare in pezzi molto prima del previsto.
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Travolto dalle accuse (non solo dell´opposizione, ma anche dei suoi alleati), alla fine il neo ministro ha dovuto gettare la spugna, rinunciando allo scudo che il Cavaliere gli aveva regalato. Era il minimo che ci si potesse aspettare dopo il richiamo del Quirinale, imprudentemente attaccato da solerti portabandiera del Pdl. Il presidente della Repubblica non poteva esimersi dall´esternazione pubblica del suo pensiero avvenuta venerdì scorso. Aveva firmato da pochi giorni la nomina di Brancher a ministro senza portafoglio ricevendone il giuramento; aveva chiesto e ricevuto dal presidente del Consiglio le motivazioni che rendevano necessaria (a suo dire) quella nomina per ragioni funzionali. Non era entrato nel merito di esse. Non gli spettava, riposavano sulla valutazione politica del premier che Napolitano ritiene gli sia preclusa, dando semmai al proprio ruolo una configurazione restrittiva.
Ovviamente aveva volutamente escluso che la nomina in questione fosse dovuta a ragioni diverse dalla “funzionalità del governo” invocata dal presidente del Consiglio. Ma a mettere in dubbio quella motivazione erano intervenuti nel frattempo tre fatti: l´infastidita sorpresa di Bossi per quella nomina, manifestata al Quirinale direttamente dal ministro delle Riforme; il cambiamento della delega a Brancher, da ministro addetto all´attuazione del federalismo ad altra mansione tuttora non precisata e quindi non ancora pubblicata in “Gazzetta ufficiale”; infine (e più grave di tutti) la decisione di Brancher di sottrarsi immediatamente all´udienza del processo che lo vede indagato per appropriazione indebita e la richiesta di spostare la prossima data processuale ad ottobre, sulla base del legittimo impedimento.
Di fronte a tre fatti di questa portata era tecnicamente impossibile che il Quirinale restasse silenzioso e non definisse con esattezza la posizione di un ministro senza portafoglio di fronte alle scadenze processuali che lo riguardano. È ciò che ha fatto Napolitano con un´asciuttezza di linguaggio che fa parte dei suoi poteri–doveri di custode della Costituzione.
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Il caso Brancher nella sua esemplarità ci porta ad alzare lo sguardo sul panorama generale che configura il nostro paese. È un quadro niente affatto consolante perché al declino, in sé auspicabile e salutare, d´un blocco di interessi e di potere che controlla e manipola la nostra società ormai da oltre vent´anni, si aggiunge la fine di un´epoca che è sempre solcata – quando avviene – da lampi e tuoni e raffiche e terremoti e marosi che sconvolgono culture e istituzioni, comportamenti e consuetudini, senza ancora essere in grado di proporne di nuovi, guidati da nuovi ideali e fresche speranze.
Ho scritto domenica scorsa del «dopo–Cristo» di Pomigliano e della legge dei vasi comunicanti che opera in un´economia globale percorsa da paurosi dislivelli tra opulenza e povertà. Ed ho osservato che quei dislivelli esistono non soltanto tra paesi ricchi e paesi poveri ma anche all´interno dei paesi ricchi, da un confronto sempre meno accettabile tra sacche di povertà e di mediocre e precaria sostenibilità e fasce di antica opulenza e privilegiati benefici.
Sempre più urgentemente si pone dunque il problema di governare la crisi anche attraverso una redistribuzione del reddito che sia spiegata al pubblico non certo come frutto d´invidia sociale ma come appello all´equità dei sacrifici e alla loro ineluttabilità in una prospettiva più dinamica e più coesa.
Questo è il futuro della sinistra italiana, dei cattolici democratici e del liberalismo laico: libertà e giustizia, coesione sociale, efficienza da offrire e da reclamare.
Io non credo che questa legislatura terminerà il suo corso come previsto nel 2013. Credo che Berlusconi senta il crescente scricchiolio del sistema di potere da lui costruito. Lo senta e ne sia angosciato, ma anche intestardito nel difenderlo con tutti i mezzi.
Sente anche che il solo modo di protrarne l´agonia sia il ricorso alle urne prima che lo scricchiolio divenga schianto. La data probabile è a cavallo tra 2011 e 2012 e comunque al più presto possibile, quando l´informazione sarà stata totalmente blindata e solidamente nelle sue mani, la magistratura umiliata e asservita, le istituzioni di garanzia depauperate.
Il prossimo autunno e l´inverno che seguirà saranno perciò teatro di questi scontri. Come ha scritto Ezio Mauro nel suo intervento di mercoledì scorso, è inutile scommettere sul meno peggio. Non ci sarà un meno peggio perché è il principale interlocutore a non volerlo. Il meno peggio passa necessariamente dalla sua personale uscita dal campo ma questa ipotesi non rientra nella sua natura. Chi lo conosce lo sa: il «meno male che Silvio c´è» è l´essenza d´un carattere che ha evocato gli istinti profondi d´una società desiderosa di lasciare in altre mani il governo di se stessa, fino a quando non sentirà di nuovo l´orgoglio di riappropriarsi del proprio futuro.
Nei prossimi mesi sarà dunque questo il terreno di scontro e di confronto e dovrà esser questo il linguaggio che bisognerà parlare per essere ascoltati, compresi e incoraggiati. Non bastasse il resto, anche le vicende del calcio nazionale ne hanno fornito un´eloquente conferma.
Dai naufragi speriamo che sorga una nuova e creatrice allegria.

La Repubblica 27.06.10

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“Il mio destino nelle mani di Silvio”, di Alberto D’Argenio

Ci ha pensato tutta la giornata. Ai suoi collaboratori diceva: «Sono nelle mani di Berlusconi, sarà lui a decidere il mio futuro». Alla fine, quando l´onda delle polemiche sembrava travolgerlo, ha deciso.
Aldo Brancher rinuncia allo scudo ministeriale nel processo Antonveneta. «Così mi sento più tranquillo», confidava in serata, «a questo punto credo di avere tolto ogni retropensiero a chi ha montato questa speculazione ignobile». Il neo ministro ha deciso al termine di una giornata per lui drammatica, nella quale la sua figura si è trasformata nel possibile punto di rottura della maggioranza e ha messo in crisi la stessa tenuta del governo. Al punto che le pressioni che dal Canada gli ha fatto recapitare il premier Berlusconi, le condanne dei finiani, il gelo della Lega, le richieste di dimissioni dell´opposizione e le critiche dei pm milanesi lo hanno portato al clamoroso passo indietro: tra due lunedì, il cinque luglio, sarà in aula per rispondere alle accuse dei pm.
Ieri Brancher ha passato gran parte della giornata a Roma, al lavoro con i suoi collaboratori negli uffici di Largo Chigi dalle otto del mattino alle cinque del pomeriggio. Proprio mentre al tribunale di Milano si discuteva del legittimo impedimento invocato giovedì scorso, a soli sette giorni dalla promozione a ministro. Scosso dalla bufera ha cercato di concentrarsi sui prossimi impegni – relazione sul federalismo in testa – e si è cucito addosso quelle deleghe ministeriali che il pm milanese Eugenio Fusco in udienza ha detto di non conoscere. «Le deleghe il pm non ce le ha chieste – ribattevano i suoi collaboratori – comunque sono quelle approvate dal consiglio dei ministri il 18 giugno e proprio oggi le stiamo limando con il ministro Fitto perché ci potrebbero essere alcune sovrapposizioni di competenze sulla sussidiarietà. Tutto risolto e a giorni saranno pubblicate dalla Gazzetta ufficiale».
Ma i problemi, quelli veri, erano altri: la spada di Damocle delle dimissioni che, comunque, non si poserà fino a quando Brancher non avrà parlato con il premier Silvio Berlusconi, a Toronto per il G8. Dimissioni? Rinuncia al legittimo impedimento? Alle sette del pomeriggio Brancher rispondeva ancora così: «Ci sto pensando». Rinviando mesto alla fatidica telefonata con il Cavaliere. Appena atterrato a Milano, poco prima di cena, (oggi lo attende una manifestazione sul Lago di Garda) Brancher si sentiva «confortato» dalle smentite di Bonaiuti delle ricostruzioni giornalistiche che davano Berlusconi orientato per le dimissioni. Così come era contento delle dichiarazioni del premier, che da Toronto definiva il suo caso «una piccola questione». Ma quella telefonata dal premier, al contrario delle mille pressioni, non era ancora arrivata. Così stretto tra le bordate dell´opposizione – pronta a chiederne l´impeachment – e l´irritazione di finiani e leghisti – orientati ad abbandonarlo in Parlamento – le dichiarazioni canadesi non sono riuscite a rasserenarlo completamente.
È stato a questo punto che – «con una scelta del tutto autonoma», assicura – ha optato per la più plateale delle mosse. «Il ministro Aldo Brancher rinuncia al legittimo impedimento, ha deciso di acconsentire lo svolgimento dell´udienza del cinque luglio», hanno annunciato gli avvocati Filippo Dinacci e Piermaria Corso. Che hanno aggiunto: «La scelta di far valere il legittimo impedimento era stata presa perché pensava fosse suo dovere, almeno nel primo periodo di mandato, dare un impulso determinante a quelle riforme di cui il paese ha bisogno e che il governo gli chiedeva di velocizzare. Per questo si era messo a disposizione della magistratura a partire dal sette ottobre prossimo, ritenendo che per quella data avrebbe potuto completare buona parte del programma di lavoro». Ma poi le polemiche, le richieste di dimissioni, l´atteggiamento freddino di molti alleati di governo (fatti definiti dagli avvocati «reazioni sopra le righe»), quella telefonata dal Canada che non arrivava, hanno convinto il ministro a cambiare idea: ferma restando, concludo Dinacci e Corso, «la necessità di rivedere il programma delle udienze in relazione agli ordinari impedimenti parlamentari e di governo che non consentano la partecipazione di Brancher». Un chiaro tentativo di abbassare la tensione provocata da «un caso vergognoso montato ad arte contro di me, che non voglio sfuggire a niente». E, ovviamente, affrontare con maggior serenità i prossimi giorni e le polemiche destinate a dominare ancora i media. Forte di un gesto che, spera Brancher, dovrebbe evitargli le dimissioni.

La Repubblica 27.06.10