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"La battaglia dei post-it", di Stefano Rodotà

La manifestazione di oggi, che da piazza Navona a Roma si diramerà in tante piazze italiane, assume un significato politico e una forza simbolica che la proiettano al di là di altre iniziative di opposizione al disegno di legge sulle intercettazioni. In quelle piazze si parlerà di tre bavagli: al lavoro della magistratura, al diritto all´informazione, alla cultura.
È ormai chiaro, infatti, il legame stretto che unisce gli attacchi alla legalità, all´esistenza stessa di un´opinione pubblica vigile, alla formazione del sapere critico. Una strategia che va avanti da tempo e che si vuol far arrivare al suo momento finale, ad una conclusione che negherebbe alcuni dei fondamenti che consentono ad un Paese di poter continuare a definirsi democratico. Il presidente del Consiglio non ha mai nascosto la sua ostilità a qualsiasi forma di controllo del potere. E ora, dopo aver messo il Parlamento nella condizione di non nuocere, vuole liberarsi in un colpo solo dell´odiata magistratura, di un sistema dell´informazione contro il quale aizza i cittadini, delle istituzioni culturali (università, in primo luogo) affamate con i tagli ai bilanci.
Ma qualcuno si è messo di traverso, e oggi tornerà a dire in pubblico che intende continuare a farlo. Non è il caso di abbandonarsi all´autocompiacimento, o a un ottimismo superficiale. Registriamo i fatti. Centinaia di migliaia di persone hanno firmato documenti contro la legge bavaglio promossi da gruppi assai diversi. Su Internet, nelle università, da parte delle più diverse associazioni si insiste in una attività di analisi e denuncia degli aspetti gravemente repressivi di quel testo. Questa opposizione sociale non si è rintanata in qualche nicchia, ma ha coinvolto l´intero mondo dell´informazione, al di là degli steccati politici, ha diviso la stessa maggioranza. Segno evidente che quel disegno di legge è stato vastamente percepito come un inaccettabile sopruso.
Questo è un fatto politico. In alcune materie non esiste la controprova, ma si può ragionevolmente ritenere che né le divisioni della maggioranza, né le inusuali durezze dell´opposizione sarebbero emerse con tanta chiarezza se vi fosse stata anche in questo caso quella acquiescenza di troppa parte dell´opinione pubblica che ha reso possibile le scorrerie di cui stiamo misurando i guasti e alle quali si vorrebbe continuare a garantire l´impunità nell´ombra. Ma il tempo dei silenzi è finito, si è individuato un nuovo terreno di lotta politica e non sarà facile per nessuno tentare di recintarlo.
Questo è un monito anche per coloro i quali, proprio in questo periodo, stanno mettendo in discussione diritti fondamentali garantiti dalla prima parte della Costituzione. Proprio la Costituzione, infatti, è stata impugnata come arma pacifica da tutte le persone che hanno protestato, firmato e oggi torneranno in piazza. La Costituzione ha trovato i suoi nuovi difensori, e non sarà facile scippargliela.
E la privacy? Queste settimane hanno mostrato pure l´ipocrisia e la doppiezza di coloro i quali si sono messi al riparo dell´articolo 15 della Costituzione e della garanzia lì prevista per la libertà di comunicazione. Proprio ieri, nella sua relazione al Parlamento, il Presidente dell´Autorità garante per la protezione dei dati personali ha messo in evidenza quante e quali siano le violazioni quotidiane della privacy delle persone, previste, favorite, ignorate dal Governo e dalla sua maggioranza. In questi casi, che davvero toccano la vita quotidiana di milioni di persone, nemmeno un briciolo di quell´attenzione che invece scatta, sensibilissima, appena ci si avvicina ai centri di potere e alle figure pubbliche. Si ignora che già esiste una norma chiarissima in questa materia, consegnata all´articolo 6 del codice deontologico dell´attività giornalistica: “La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo e sulla loro vita pubblica”.
Qui il confine difficile tra diritto d´informazione e tutela della privacy è tracciato con assoluta chiarezza. Non vi è alcuna aspettativa di privacy da tutelare quando i fatti riguardano figure pubbliche e hanno rilevanza pubblica, perché forniscono elementi in base ai quali l´opinione pubblica può controllare l´esercizio del potere e l´affidabilità di politici, burocrati, imprenditori.
Vogliamo uscire da questo brutto e non nuovo esercizio di strumentalizzazione delle istituzioni, dal loro pericoloso uso congiunturale? Vi è una via molto semplice per farlo, che converrà riproporre all´attenzione di quelli che saranno in piazza e, tramite loro, a quanti hanno responsabilità direttamente politiche e hanno finalmente compreso quale sia il pendio scivoloso che si sta imboccando con quel disegno di legge. Uno stralcio. Si abbandonino le pretese di rendere più difficile o addirittura impossibile l´attività d´indagine di magistratura e polizia e di bloccare le possibilità di impedire ai cittadini di veder legittimamente soddisfatto il loro diritto ad essere informati. Si presenti una proposta che vieti la pubblicazione di quanto è segreto, di quel che riguarda informazioni irrilevanti o riguardanti persone del tutto estranee alle indagini. E ci si fermi qui. Una proposta del genere troverebbe certamente larghissimo consenso, garantirebbe la genuina esigenza di privacy, eviterebbe gli abusi di cui tanto, e giustamente, ci si è lamentati.
Prepariamoci, altrimenti, a mantenere aperti spiragli di democrazia nella malaugurata ipotesi che il disegno di legge venga approvato. È già emersa una strategia di disobbedienza civile che va dalla pubblicazione di notizie rilevanti anche in casi vietati dalla legge alla impugnativa davanti alla Corte costituzionale e, eventualmente alla Corte europea dei diritti dell´uomo; ad accordi che consentano la pubblicazione delle stesse notizie su siti Internet stranieri, ai quali gli italiani potrebbero accedere, ed essere così informati; alla lettura alle Camere delle pagine vietate che, entrando negli atti parlamentari, diverrebbero immediatamente pubblicabili. Ma oggi nelle piazze si celebra un successo già raggiunto, sì che speriamo che di questa strategia non vi sia bisogno.

La Repubblica 01.07.10

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Bavaglio, Pdl e Lega forzano La legge in aula il 29 luglio, di Andrea Carugati

Alla vigilia della manifestazione «no bavaglio» di oggi a piazza Navona, Pdl e Lega cercano e trovano la forzatura sul ddl intercettazioni. Andrà in aula alla Camera il 29 luglio, con probabile data del voto ai primi di agosto. Sarà il clima balneare il paravento dietro cui la maggioranza cercherà di nascondere le norme-bavaglio che anche ieri, in commissione Giustizia a Montecitorio, sono state fatte a pezzi dal procuratore Antimafia Pietro Grasso e dai vertici dell’Anm. Critiche molto precise, che riguardano anche i rischi per le indagini di mafia e terrorismo, che Maroni e Alfano hanno sempre negato.

L’ok di Fini
La decisione di portare in aula il ddl a fine luglio è stata presa ieri dalla conferenza dei capigruppo della Camera, con la netta contrarietà delle opposizioni. Fini non ha nascosto i suoi dubbi, ha definito «un irragionevole puntiglio» la decisione di Pdl e Lega, anche perché il voto finale del Senato arriverebbe comunque in autunno, ma alla fine ha preso atto della volontà della maggioranza. «Era suo dovere istituzionale», spiegano dallo staff del presidente della Camera.
Le opposizioni sono in rivolta. «Devono sapere che troveranno un inferno in aula», attacca Dario Franceschini. «Useremo tutti gli strumenti parlamentari a disposizione per fare nel modo più fermo, più determinato, più duro possibile il nostro ruolo di opposizione». Duro anche Bersani: «Un ulteriore gesto di arroganza che sfida la coscienza civile di questo Paese. Saranno giornate molto calde, combatteremo e chiediamo gesti di coerenza a chi nella maggioranza ha sollevato fondate obiezioni contro queste norme». La tirata d’orecchie è rivolta a Fini, criticato anche da Franceschini: «La decisione sul calendario l’ha presa lui». Al capogruppo Pd replica il numero uno dei leghisti a Montecitorio Marco Reguzzoni: «Le sue minacce non ci spaventano». Bossi è sempre più in linea con Berlusconi sull’argomento: «Per la Lega va bene chiudere prima dell’estate». Eppure, pare che i volti dei leghisti ieri in commissione Giustizia, mentre Grasso parlava di un ddl «peggiorato per quanto riguarda le indagini su mafia e terrorismo», la dicessero lunga su quanto sia amaro il rospo.

Grasso boccia il ddl
Grasso, con tono pacato, ha squadernato tutte le ombre del ddl: «C’è il rischio che le limitazioni alle indagini per i reati ordinari si estendano anche ai reati di mafia e terrorismo», ha spiegato il procuratore Antimafia. E ancora: «È stato abrogato l’articolo 13 della legga Falcone che estende il concetto di criminalità organizzata anche ai gruppi non propriamente mafiosi, come le bande criminali che agiscono in prevalenza nel centronord: è una “conquista” che abbiamo esportato a livello internazionale, come possiamo espellerla dal nostro ordinamento?». E ancora, le enormi difficoltà che gli inquirenti avranno per filmare i criminali nelle auto, e nei negozi, e per mettere le cimici. E infine i “reati spia”, come usura, estorsione, spaccio. Insomma, «gli strumenti di contrasto alla criminalità organizzata sono gravemente limitati». «Per non parlare dei problemi organizzativi: anche solo per avere un tabulato telefonico bisognerà inviare al tribunale distrettuale decine di faldoni…».

Altro tema sollevato riguarda i budget per gli ascolti: una volta esauriti, le procure dovranno chiedere un “supplemento” al ministero della Giustizia, e così il governo sarà a conoscenza delle indagini. «Ddl non emendabile», taglia corto il presidente dell’Anm Luca Palamara: «Anche le indagini sulla mafia finiranno in ginocchio». L’audizione di Grasso (cui non ha partecipato il capogruppo Pdl Enrico Costa, rimasto in corridoio con i cronisti) proseguirà anche oggi. E intanto Di Pietro annuncia: «Con Pd e Udc stiamo preparando una mozione per chiedere il ritiro di questo ddl criminogeno». In realtà della mozione non c’è traccia, Pd e Udc la bollano come una “sparata” di Tonino. Ma anche Andrea Orlando (Pd) è d’accordo sulla sostanza: «La cosa più ragionevole è il ritiro, in agosto quelli del Pdl vadano in barca…». Orlando, dopo le parole di Grasso, ha chiesto l’audizione in Commissione del ministro Maroni: «Non può più tacere». Su Fini polemici berlusconiani: «Degrada il suo ruolo istituzionale», tuona Osvaldo Napoli. E Cicchitto: «Separi il ruolo di leader della minoranza da quello di presidente. Lui e suoi amici sembrano dei guastatori». Il finiano Granata però non si dà per vinto: «Senza modifiche il ddl non è votabile».
da www.unita.it del 1 luglio 2010