attualità, politica italiana

«L'immunità un'offesa al buon senso», di Michele Ainis

King cannot wrong»: il re non può sbagliare, recita un’antica massima della democrazia inglese. È dunque irresponsabile, se non infallibile tal quale il Papa, come stabilì Pio IX nel 1870.

Invece nella nuova democrazia italiana irresponsabili e infallibili sono i ministri, quale ne sia il numero, il sesso, la fedina penale. Così vuole il lodo Alfano nel suo abito costituzionale. Un abito peraltro continuamente allargato e ricucito nella sartoria del Senato; o dovremmo chiamarlo lodo Brancher?

L’ultima idea – quella di estendere lo scudo processuale alle iniziative giudiziarie inaugurate prima che l’imputato giurasse da ministro – sembra in effetti tagliata su misura per il neoministro a Non si sa che cosa. Significa che è un’idea incostituzionale? No di certo: ormai è vietato concludere i processi, figurarsi i processi alle intenzioni. E d’altronde già la Carta del 1947 elenca una serie d’immunità per le alte cariche; dunque l’immunità di per sé non viola il principio d’eguaglianza, altrimenti dovremmo reputare incostituzionale la Costituzione stessa. Purché ogni immunità venga introdotta attraverso il procedimento di revisione costituzionale, non con legge ordinaria: così ha sentenziato l’anno scorso la Consulta, così effettivamente sta operando la maggioranza di governo.

No, non c’è un attentato alla Costituzione in questo lodo redivivo. C’è piuttosto un’offesa al buon senso, oltre che al buon gusto. Perché mai, difatti, l’immunità dovrebbe estendersi ai reati commessi prima del giuramento da ministro? Se la risposta è il fumus persecutionis, ossia il sospetto che l’inchiesta giudiziaria risponda a una finalità politica, allora è come dire che i magistrati italiani hanno la palla di vetro. E perché il nuovo lodo protegge i ministri con una diga più alta di quella eretta nell’art. 96 della Costituzione? Quest’ultima norma concerne i reati funzionali, compiuti guidando un dicastero; il lodo tocca viceversa i delitti comuni. Insomma d’ora in poi ogni ministro sarà più tutelato se fa una rapina in banca anziché un abuso d’ufficio. E perché infine l’autorizzazione a procedere viene affidata alla maggioranza semplice delle assemblee legislative? Siccome tale maggioranza è lo sgabello su cui poggia il governo, siccome la sua sopravvivenza in Parlamento dipende dalla sopravvivenza del governo, è un po’ come consegnare un fucile a chi ha le manette ai polsi.

Eccolo infatti il vizio (logico, prima ancora che giuridico) di questo nuovo lodo. Non è illegittimo, è inopportuno. Peggiora la qualità delle nostre istituzioni, anziché innalzarla. Infine erode sotto traccia l’autorità del Capo dello Stato. Il presidente della commissione Giustizia del Senato ha dichiarato che sarebbe ingiusto negare al premier il medesimo scudo processuale per i reati pregressi di cui potrà avvalersi il Quirinale. Errore: lì abita la prima carica dello Stato, il presidente del Consiglio è soltanto la quarta. Ma il vero errore sta nel voto a maggioranza semplice con cui le Camere decideranno l’autorizzazione a procedere verso il Capo dello Stato: un improprio voto di fiducia, ha osservato Paolo Caretti. O altrimenti un’arma di ricatto. Meglio la maggioranza assoluta, come del resto vuole l’art. 90 della Costituzione per i reati presidenziali. O l’improcedibilità tout court, quale esiste in Francia, Israele, Grecia, Portogallo.

Ma l’opportunità è una categoria dello spirito, non della politica. A noi che non abbiamo scudi processuali sembrerà forse inopportuno tutto questo scalmanarsi attorno allo scudo dei potenti, prima con il lodo Schifani, poi con il lodo Alfano, poi con il legittimo impedimento, poi con il lodo Alfano bis. Suoneranno altrettanto inopportune le proclamazioni sui principi – la forma di governo, il federalismo, la libertà d’impresa nel nuovo art. 41 – quando le uniche riforme che poi approdano a riva sono quelle che hanno di mira la giustizia. Ci parrà infine inopportuno venire scomodati per il referendum costituzionale che giocoforza accompagnerà questo nuovo lodo. Ma ci scomoderemo.

da www.lastampa.it

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«Grasso: indagini antimafia a rischio», di Francesco Grignetti

Il tono è quello suadente di chi cerca di fare breccia nelle convinzioni altrui. Ma usa parole che fanno male, Piero Grasso, il procuratore nazionale antimafia, nel concludere la sua analisi del ddl Intercettazioni. E lancia un allarme: così come è stata scritta, non è più così sicuro che per mafia e terrorismo si potrà intercettare senza limitazioni. «Si deve chiaramente dire – spiega al termine della sua audizione alla Camera – che i requisiti richiesti per i reati ordinari non si devono considerare come presupposti per i reati di mafia. Basta poco per chiarirlo. Così come è, il dubbio può rimanere. E siccome si fanno i processi e poi si arriva in Cassazione e magari ti danno un’interpretazione del genere, basta chiarirlo per non fare del lavoro inutile».

Già, il lavoro inutile. Ma non c’è solo questo. C’è a monte una convinzione che Grasso illustra con poche lapidarie parole: «Talune modifiche hanno peggiorato alcuni aspetti». E su altri aspetti, vedi la durata prefissata di 75 giorni, ebbene trattasi di «termini iugulatori… una previsione irrazionale, immotivata e soggetta a rilievi di incostituzionalità». Il magistrato ha illustrato ai deputati una sorta di decalogo. I dieci punti che proprio non vanno: dalla sostituzione del pm indagato (che rischia di innescare una serie di denunce strumentali) al tribunale collegiale che comporterà «enormi difficoltà organizzative», alla questione dei tabulati, che oggi si acquisiscono con semplice routine e domani sarà un procedimento complicato, al problema interpretativo dei «gravi indizi di reato» che ora non si capisce più, dopo le ultime modifiche del Senato, se le condizioni stabilite per i reati ordinari valgono anche per mafia e terrorismo, all’invio di «tutti» gli atti d’indagine dalle procure ai tribunali del capoluogo, il che significa un traffico immane di faldoni ogni 15 giorni ed è «utopia».

Infine la questione poco raccontata dello «stralcio», che significa mantenere segreta una intercettazione quando ha fatto scoprire un nuovo reato e dato il via a una nuova inchiesta: la legge ora vieterebbe di effettuare stralci, cioè tenere segreto alcunché, e quindi si regalerebbe all’indagato la notizia che è sotto indagine. Ma Piero Grasso individua anche un altro problema non da poco: se in sede di udienza preliminare o di dibattimento si formula in maniera differente un reato, le intercettazioni non sarebbero più utilizzabili perché erano state autorizzate per altro fatto. «Sarebbe gravemente minata l’efficacia dell’azione investigativa e processuale». E’ un fuoco di fila di osservazioni che la maggioranza ha accolto con malcelato fastidio. «I reati di mafia sono esclusi dalle limitazioni. Più che dirlo e riaffermarlo, francamente non so cosa fare. Per questo non sono preoccupato», dice il ministro dell’Interno Roberto Maroni.

Al contrario hanno impressionato moltissimo Gianfranco Fini, che invita a una ripensamento ulteriore, in asse con il Quirinale: «Su alcune questioni non faccio finta di non vedere. Dopo le parole del procuratore Grasso serve una riflessione sul ddl Intercettazioni». E fa esempi molto concreti: possibile che non si possa più sistemare una microspia nella macchina della moglie di un mafioso in nome della privacy? Era stato il procuratore nazionale Antimafia a lanciare l’allarme sui limiti draconiani in arrivo per le intercettazioni ambientali. Conclusioni di Fini: «Se si è in buona fede le soluzioni si trovano, sennò non accetto che non si possa contestare una decisione già presa».

Frase un po’ criptica. Fa riferimento, il presidente della Camera, al punto che il Pdl, nella sua componente maggioritaria, ritiene una Maginot invalicabile: i capitoli che sono stati approvati da Camera e Senato non si ridiscutano più, al massimo ci possono essere delle modifiche sui punti appena riscritti al Senato. E già si riflette ad alta voce di nuovi emendamenti da parte dei berlusconiani, «ma che siano solo piccoli ritocchi», onde evitare la «manifesta incostituzionalità» che spingerebbe il Quirinale a bocciare la legge. E perciò: intercettazioni estese anche per tre reati-spia, ovvero usura, estorsione e riciclaggio; rivedere il meccanismo delle 72 ore di proroga in extremis oltre i 75 giorni concessi; allargare il periodo di attesa per l’entrata in vigore della legge sul passaggio da autorizzazione monocratica a autorizzazione collegiale (oggi sono previsti sei mesi; si potrebbe aspettare di più in attesa che si passi al processo penale interamente informatizzato); semplificare l’acquisizione dei tabulati del traffico telefonico.

Come si vede, le ipotesi di modifica toccano solo quattro dei dieci punti rimarcati da Piero Grasso (già evidenziati dalla relazione di Giulia Bongiorno di qualche settimana fa). Non è difficile leggere in controluce quali siano i punti dolenti del ddl a cui allude anche il Presidente della Repubblica. «Una legge del genere andrebbe riformulata da capo», sostiene intanto Pierluigi Bersani. E Di Pietro annuncia battaglia.
da www.lastampa.it