economia, politica italiana

"Il secondo atto della farsa Brancher", di Giovanni Valentini

Caso Brancher, atto secondo. Con le dimissioni-lampo del ministro-fantasma, s´è chiuso in qualche modo il caso giudiziario innescato dalla sua improvvida nomina e dal suo ancor più improvvido ricorso al legittimo impedimento. Ma contemporaneamente si riapre ora il caso politico di un ministro ad interim dello Sviluppo economico, vacante ormai da oltre tre mesi, interpretato dal presidente del Consiglio in prima persona con la disinvoltura di un attore-regista che scrive il copione e recita due parti in commedia. E per di più, in pieno conflitto di interessi, a mezzo servizio tra il governo e la sua azienda privata.
Era già discutibile che si affidassero deleghe immaginarie a un fantomatico ministro al Decentramento, nel vortice di una crisi mondiale e in vista della manovra finanziaria per fronteggiarla, prima di colmare un vuoto del genere nell´organico governativo. È come se l´ex commissario tecnico Marcello Lippi, nell´impossibilità o incapacità di sostituire l´infortunato Pirlo in Nazionale, avesse deciso improvvisamente di scendere in campo al suo posto. Con l´ulteriore aggravante che, in questo caso, lo stesso premier è anche il patròn della squadra avversaria, di cui decide la formazione e il modulo di gioco.
È proprio al ministro dello Sviluppo economico, infatti, che è demandato il compito di sovrintendere al settore nevralgico delle telecomunicazioni: un comparto industriale che – come ha ricordato appena ieri il presidente dell´Agcom, Corrado Calabrò, nella sua relazione annuale – corrisponde al 3% del Prodotto interno lordo. E all´interno di questo mercato, c´è appunto la televisione, tanto cara al capo del governo; c´è la Rai e c´è Mediaset, insieme a tutti gli altri concorrenti. In questa paradossale situazione, Berlusconi non ha più neppure la foglia di fico che ricopriva le sue vergogne televisive, quel paravento ministeriale dietro cui ha cercato finora di nascondere l´intreccio tra gli interessi aziendali e le responsabilità istituzionali.
Se non vuole innalzare dunque un monumento equestre al suo conflitto di interessi, mettendosi in sella a un cavallo imbizzarrito, il presidente del Consiglio ha il dovere di lasciare al più presto la guida dello Sviluppo economico e nominare un titolare effettivo, nella pienezza dei suoi poteri e – si spera – della sua autonomia. Non una controfigura, uno stuntman, un cascatore. Né tantomeno un dipendente o ex dipendente del Biscione. Ma auspicabilmente una figura qualificata, autorevole e rispettabile, in grado di tutelare gli interessi generali del Paese e di tutti gli operatori del mercato.
Adesso, dopo aver imposto le dimissioni al ministro-fantasma, Berlusconi deve dimettere se stesso dal ministero vacante. Ogni ulteriore indugio o rinvio sarebbe un´altra dimostrazione di impotenza politica, di sudditanza del governo alle logiche spartitorie della Lega o di qualche altra componente di quella che fu la maggioranza di centrodestra. Così si rischia di ridurre lo Sviluppo economico a una scatola vuota, a una dépendance di Palazzo Chigi, proprio nel momento in cui occorrerebbe invece una cabina di regia per guidare appunto la ripresa e lo sviluppo nazionale.
La formula del “ghe pensi mì” forse può anche funzionare per gestire una fabbrica o una fabbrichetta. Ma certamente è inadeguata per amministrare un´azienda-Paese, nello spirito della concertazione e nella ricerca del maggiore consenso possibile. Altrimenti, il pericolo è quello di un´involuzione autoritaria, di un isolamento personalistico e velleitario, in una paranoia politica e istituzionale che non ha più nulla a che vedere con il governo di una democrazia.

la Repubblica del 7 luglio 2010