attualità, politica italiana

Dopo gli spot, le botte

Pubblichiamo alcuni commenti sulla manifestazione dei terremotati d’Abruzzo, che hanno ricevuto botte invece che risposte.

«La responsabilità delle promesse», di Francesco Merlo
MA PERCHE’ sono stati mobilitati i reparti antisommossa per fermare un corteo di terremotati pacifici, senza black bloc e senza giovani rivoluzionari armati di estintori? Le immagini in diretta della benemerita Sky, che non è certo una riedizione di Telekabul ma soltanto si limita a non applicare il “codice Minzolini”, hanno fatto vedere in maniera inequivocabile che la marcia degli Aquilani a Roma era al tempo stesso popolare e ragionevole. Di sicuro, tra molte donne e tanti anziani non c’erano i professionisti del passamontagna, niente sbarre e bastoni, niente bandiere rosse e neppure ghigni e grugni di facinorosi.

In generale si sa che i terremotati sono spesso arrabbiati ma raramente pericolosi, e in particolare gli abruzzesi dell’Aquila sono di natura ben più quieti dei sovversivi siciliani del Belice, non sono agitati dalle turbolenze plebee degli irpini e non hanno neppure le durezze calviniste dei friulani. Insomma, da che mondo è mondo, tutti i terremotati cercano aiuti e organizzano marce, chiedono procedure speciali e facilitazioni fiscali come quelle che ieri sera sono state inserite e approvate, con un lodevole emendamento, nella finanziaria.
I terremotati dell’Aquila esigono, con molte buone ragioni, i mutui agevolati, pungolano la cultura scientifica, premono sulle banche, sperano nei governi e pretendono la solidarietà che, per la verità, gli italiani sono sempre disposti a dare, anche in forma di tasse e pur diffidando da sempre, e giustamente, della buona amministrazione: “Si incolpa solo il Fato/ l’Evento se è ferale / l’uomo è peggior del male / l’aiuto ei si rubò” scriveva il principe di Biscari dopo la distruzione di Messina in un lunghissimo e bellissimo poemetto che prefigura la Protezione civile del pio Bertolaso.

Ma il terremotato è soprattutto facile preda dei demagoghi e degli sciacalli: “Smarriti e timorosi / ninfe, pastori e armenti / vittime dei verbosi / manipolator di menti”. Insomma alla fine tutto si può fare dinanzi ad una piccola folla di terremotati infelici che ti vengono a cercare fin sotto casa, e si può persino usare ancora la demagogia, ma non è lecito affrontarli con la pesantezza dei manganelli della polizia: “Trema il suolo, il mar ci inonda / sordo è il re ai mesti accenti / fra gli affanni ed i lamenti / chi soccorso a noi darà?”. Dunque il presidente del Consiglio, che era impegnato a Palazzo Grazioli in una delle tante assemblee contro i traditori e gli ingrati, non solo non è sceso fra questi disgraziati manifestanti aquilani a spiegare tutte le meraviglie che erano state propalate dal Tg1 solo due mesi fa sotto il titolo “il miracolo della ricostruzione” nell’anniversario del sisma dell’aprile 2009, ma, come un caudillo sudamericano, si è nascosto dietro un diluvio di poliziotti che di nuovo hanno usato la violenza, e di nuovo sui più innocenti, sulle vittime per definizione come sono appunto le vittime delle sciagure naturali, che in Italia si affiancano alle violenze sociali, alle mafie, alla corruzione, al malgoverno.

Ma perché ha paura della folla aquilana il premier che all’Aquila ha fatto i suoi più riusciti bagni di folla? Ai tempi delle promesse, quando disse che l’Aquila sarebbe tornata “più bella e più florida di prima” Berlusconi arrivava all’improvviso per sopralluoghi nei paesaggi delle macerie informi, per comizi a gente rabbrividente e tutta stonata, maneggiava con sagacia e, bisogna riconoscere anche con efficacia immediata, il primo danaro del pronto soccorso, ordinava di seppellire i morti e accoglieva, un po’ spronandole e un po’ intestandosele, le carovane della solidarietà di un’Italia che come sempre si univa nella disgrazia, perché nelle peggiori tragedie ci capita di dare il meglio di noi: sottoscrizioni, copiosissime donazioni di sangue, offerte di ospitalità… Davvero ci sentimmo ed eravamo tutti abruzzesi.

Per quelle dignitose lacrime di poco più di un anno fa, ci sono adesso familiari i volti degli abruzzesi in corteo a Roma. Sono i volti dei nostri fratelli perché l’Aquila è più che mai una questione nazionale che Berlusconi ha il dovere di affrontare anche in Parlamento, e magari tornando nei suoi tg a spiegare che cosa si deve fare di quel centro storico che rischia di morire, come i giornalisti di ogni tendenza, italiani e stranieri, hanno ormai documentato. Vuole ricostruirlo o vuole abbandonarlo? È Berlusconi che volle celebrare all’Aquila quel G8 che, dirottato apposta dalla Maddalena, ha poi aperto il capitolo nero della sporcizia di Stato che faceva capo alla Protezione civile. È Berlusconi che ad ogni piè sospinto gridava: “Non vi abbandonerò mai”. Tutti sanno che il governo Berlusconi esordì con le promesse della ripulitura di Napoli e della ricostruzione dell’Aquila. E nessun’altra catastrofe sismica ha provocato tanti carmi e tante elegie, odi e inni sulla ricostruzione e sul suo miracolo, neppure la rinascita di Lisbona che nella storia dell’umanità è stata certamente la più cantata.

Attenzione: noi non neghiamo che il premier seppe spendersi anche sul piano personale. Ma la storia insegna che qualsiasi città terremotata inizialmente è popolata da sciacalli e becchini, da ciarlatani e trascinatori di folle e da speculatori contenti, come quegli imprenditori che, legati alla cricca, inneggiarono alla distruzione dell’Aquila prima ancora dell’ultima scossa. È dopo che la città sventrata diventa un cantiere, sveglia i talenti finanziari e imprenditoriali, crea ad un tempo i ricostruttori e i garanti della memoria storica. Insomma solo dopo il tempo dello sciacallo, che in passato veniva impiccato senza processo, comincia il tempo della responsabilità.

Chiuso nel suo bunker, circondato da legioni di manganellatori, Berlusconi si nega alla responsabilità di decidere cosa fare di quel centro storico. Smascherato “il miracolo della ricostruzione”, ora gli italiani sanno che ci sono stati politici che hanno lucrato sul patetico e sull’estetica delle rovine e palazzinari che hanno organizzato, anche bene, il festival del prefabbricato di periferia. Ma può essere lo sciacallaggio il destino dell’Aquila?

da www.repubblica.it

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«Misure-spot e grida d’aiuto», di Michele Brambilla
Mai Berlusconi si sarebbe immaginato che alla lunga fila dei suoi nemici – la sinistra, i magistrati, i giornalisti, i finiani, i «poteri forti» e via di seguito – avrebbe dovuto un giorno aggiungere la categoria dei terremotati. Ingrati!», avrà probabilmente pensato ieri dei cinquemila aquilani che hanno sfilato per Roma fino ad arrivare sotto le sue finestre a palazzo Grazioli.

L’intervento all’Aquila era stato fatto passare come il fiore all’occhiello di questo governo, più ancora della rimozione dei rifiuti accumulatisi a Napoli dopo anni di ignavia delle amministrazioni di sinistra. A pochi mesi dal terremoto il premier aveva consegnato, radioso come nei tempi migliori, le prime case agli sfollati. Moderne, antisismiche, ben arredate, «più belle di quelle che avevano prima», diceva Berlusconi mentre si faceva fotografare accanto a famigliole sorridenti. Quelle immagini erano diventate il miglior spot per il governo, una grande prova di efficienza, di «politica del fare». Perfino gli oppositori più incalliti per qualche tempo si erano trovati a balbettare, e i sondaggi assicuravano che la popolarità del premier era più alta che mai.

Ecco, immaginare allora che dopo meno di un anno quasi il dieci per cento della popolazione aquilana si sarebbe riversata a Roma per gridare «vergogna» al capo del governo sarebbe stata una follia. Eppure è successo. Ed è difficile, se non impossibile, spiegare la manifestazione di ieri come una manovra politica dell’opposizione, della sinistra, dei soliti antiberlusconiani in servizio permanente ed effettivo. A protestare, per le strade di Roma, c’era gente comune, di sinistra come di destra; commercianti, partite Iva, perfino preti e sindacati di polizia.

Com’è potuto accadere? Chi è stato all’Aquila lo può capire. Intendiamoci bene. Sbaglia, e si rende responsabile di un altro tipo di spot, chi sostiene che il governo non ha fatto niente. Per quanto riguarda l’emergenza abitativa, è stato fatto molto più che in altri terremoti. Gli sfollati erano un’enormità: 67.000. In poco tempo, quasi quindicimila hanno ricevuto case nuove e più che dignitose; altri le cosiddette «Map», le casette di legno fatte dagli alpini, anch’esse molto meglio delle tende o di quei container ancora presenti, ad esempio, in alcuni paesi dell’Umbria; altri ancora sono stati sistemati sulla costa in alberghi a tre o quattro stelle. Nessuno ha passato l’inverno al freddo: e questo è stato, se non il miracolo sbandierato dal governo, sicuramente un successo.

Ma il trionfalismo con cui è stato «venduto» questo successo ha fatto credere a buona parte del Paese che L’Aquila fosse, se non rinata, almeno ripartita. Invece L’Aquila è una città morta. Le nuove case prefabbricate sono tutte nelle frazioni, la gente che ci vive è sradicata, senza più i riferimenti e i vicini di sempre. Il centro storico, che poi è la vera città, è un luogo di fantasmi. Non una casa è stata riaperta, non un albergo, non un ristorante, non un’attività commerciale. Delle 2.300 imprese artigiane, mille hanno dovuto chiudere. Le ore di cassa integrazione in provincia, che erano 800 mila nel maggio-giugno del 2008, nello stesso bimestre del 2009 sono diventate sette milioni e mezzo.

Insomma è successo questo: gli aquilani pensano che, dopo un’emergenza gestita bene, il governo si sia fermato. Che si sia dimenticato di loro. Perché la ricostruzione non parte e perché – con un’economia ancora a pezzi – si chiede loro di riprendere a pagare le tasse e di ricominciare a restituire quelle sospese per poco più di un anno.

Anche qui bisogna sforzarsi di essere il più possibile obiettivi. Ricostruire L’Aquila – un capoluogo di provincia con 70.000 abitanti e 28.000 studenti residenti – è un’impresa titanica, per la quale non bastano certo gli slogan che ieri Bersani urlava in mezzo ai manifestanti con parole scandite: «le risorse vanno tro-va-te», «occorre un intervento stra-or-di-na-rio». Né sono utili i toni barricaderi e i discorsi farfugliati di Di Pietro e di Pannella, anch’essi precipitatisi tra i dimostranti per cavalcare la protesta. Accanto alla demagogia del miracolo del governo, ce n’è pure una dell’opposizione.

Ma è proprio contro questa politica degli spot che la gente dell’Aquila ha protestato ieri a Roma. Gente comune, né di destra né di sinistra, la quale vorrebbe che ai problemi reali non si rispondesse con la politica degli annunci e con operazioni-lampo che giovano solo all’immagine di chi le promuove. È un desiderio, anzi un bisogno, di tutto il Paese, non solo dei terremotati.

da www.lastampa.it

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«Una pagina nera», di Luigi Lusi
Quella di ieri è una pagina nera che verrà ricordata con altrettanto dolore, ma forse con più rabbia di quella che un anno fa ha distrutto migliaia di vite. Dopo il danno c’era da ricostruire, aiutare, incoraggiare, motivare, invece è arrivata la beffa.
A distanza di un anno sono arrivati a Roma con pullman, macchine e treni i sopravvissuti alla tragedia aquilana per manifestare e ricordare pacificamente alle istituzioni e al governo di avere pazienza ancora, di rimandare l’avvio delle restituzione delle imposte sospese, l’avvio del pagamento di quelle ordinarie, per non soffocare di debiti per pagare le tasse! Erano venuti a chiedere giustizia, non pietà, per chi ormai da oltre un anno non ha più nulla.
Sono la testimonianza vivente di quanto ancora c’è da fare per quelle terre, di quanto il governo li abbia pasciuti solo di promesse per poi abbandonarli dicendo al paese che si era già fatto tutto.
In cinquemila hanno lanciato con forza per l’ennesima volta un grido per la sospensione delle tasse, l’occupazione, il sostegno all’economia: senza bandiere o striscioni di partito, ma con solo due colori predominanti – il verde (della speranza) e il nero (del lutto per il terremoto del 1703), i colori della città de L’Aquila – a rappresentare tutto quello che resta: speranza e lutto.
Si sono ritrovati a piazza Venezia nel centro della Capitale a manifestare contro le stesse persone che avevano promesso loro di restituirgli i diritti, contro quegli angeli che un anno prima, tra le macerie, avevano faticato, pianto e sperato con loro per recuperare ciò che era rimasto, per estrarre i corpi dei loro figli, familiari, amici.
La mancanza di politica, di dialogo, di collaborazione ha fatto sì che quegli stessi uomini, con gli stessi simboli sui cappelli e le loro divise abbiano malmenato e spintonato creando terrore e sgomento tra i cordoni dei manifestanti inermi. Ma chi e perché ha dato loro questo ordine? E perché? Seguiranno indagini e inchieste, poco importa ormai.
Tutto questo mentre il Palazzo è rimasto chiuso dentro ai suoi privilegi, senza guardare oltre il cortile dove sono parcheggiate le auto blu, oltre le aule rinfrescate dall’aria condizionata. Senza che nessuno in quella situazione abbia pensato alle conseguenze o agli effetti sugli animi di chi stava protestando perché senza lavoro, casa, senza qualche figlio o parente o amico perché deceduto, dovrà tornare a pagare le tasse. E a continuare a non sapere nulla della ricostruzione. Non credo ci sia rimasto altro che piangere per un governo come quello Berlusconi che trova i soldi per inventarsi un nuovo ministero e nuovi privilegi di casta e dimentica di sostenere nella speranza di ripartire un popolo fiero che ha dato tanto.
Ps. Alle 19,30 palazzo Chigi diramava un comunicato nel quale si afferma che le tasse verranno restituite in 10 anni (e non 5 come ora previsto) come il Pd chiede da un anno: diventerà legge il comunicato? E quando?

da www.europaquotidiano.it