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"Noi travet nell´università svuotata", di Carlo Galli

Non è vero che sia esistito un passato mitico in cui i docenti erano tutti Maestri, gli studenti tutti coltissimi e al tempo stesso assetati di sapere, la società deferente. Né che il presente sia soltanto corruzione concorsuale, ricerca scientificamente insignificante, asineria e disinteresse degli studenti, prestigio distrutto, barbarie montante. Anche il passato conosceva le baronie (anzi, più di quanto avvenga oggi), e spesso ignorava il merito e premiava servilismo e mediocrità; la didattica, poi, poteva essere anche angusta e ripetitiva, oggetto di derisione da parte dei giovani. E d´altra parte anche il presente è illustrato da professori onesti e capaci, che producono scienza originale e che sono prodighi del loro tempo verso studenti desiderosi di apprendere.
L´Università è – ed è sempre stata – una realtà complessa, multiforme, stratificata e diversificata. Ha contenuto e contiene mondi scientifici che lavorano su presupposti e con finalità assai lontane; ha richiesto e richiede ai professori doti contraddittorie: un cervello capace di originalità ma anche di disciplina e di collaborazione, egocentrico amore della rinomanza scientifica ma anche spirito di sacrificio e dedizione ai compiti della didattica e dell´organizzazione, indipendenza e responsabilità. Parlarne come di un´unità indifferenziata è vana chiacchiera, o ideologia.
È tuttavia vero che i mille pesantissimi difetti del passato deformavano un´idea di Università che era in sé chiara e rigorosa. Era l´idea (nata agli inizi dell´Ottocento dal ministro prussiano, e filosofo, Wilhelm von Humboldt) di un Ateneo che – attraverso il sapere nuovo e originale, sviluppato criticamente a partire da una tradizione perfettamente posseduta – era in grado di pervenire alla formazione (alla Bildung) di libere soggettività certe di sé, ovvero dei ceti dirigenti della nazione (burocrati di ogni tipo e professionisti di ogni specializzazione). E di produrre al tempo stesso un ceto di “sapienti” – appunto, i professori – non estraneo alla società e alla politica, rispetto alle quali si costituiva però come magistratura scientifica indipendente, custode del sapere, del suo progresso, della sua intrinseca umanità e storicità. Il prestigio del cattedratico derivava insomma dall´idea che la politica, la società, la storia, traessero il loro significato da uno stretto rapporto con la dimensione della cultura e della scienza, una dimensione che della prassi concreta costituiva l´anima, la giustificazione, e, benché raramente, anche la critica. Era un´idea condivisa socialmente: il discredito del professore, quando non era all´altezza del suo ruolo, nasceva dalla delusione per un tradimento, per una diserzione.
Questo modello élitario di Università è stato, nel corso dei decenni, progressivamente svuotato e impoverito dall´inevitabile accesso di grandi masse all´istruzione superiore; ed è infine divenuto inservibile, anche per colpa del conservatorismo dei “baroni”. In Italia è stato sostituito da una riforma (il cosiddetto “tre più due”), poi ulteriormente riformata, che non ha potuto impedire che, proprio in quella che si suole definire la “società della conoscenza”, la produzione di sapere originale e la sua trasmissione non dogmatica paiano invece minacciati. L´Università non è più l´unico centro di elaborazione della cultura scientifica (in senso lato), e, soprattutto, questa è solo un fattore fra i tanti delle dinamiche sociali; non ne è né il motore, né la legittimazione; e non è neppure il luogo in cui la realtà pratica viene conosciuta e portata ad autocoscienza. Di ciò non si sente, semplicemente, il bisogno; forse perché la complessità della nostra esistenza associata è tale che non si può nemmeno pensare di comprenderla in un´unica istituzione – per quanto articolata – come l´Università. A cui si affiancano, soppiantandola, televisioni e giornali e le altre agenzie del comunicare, alle quali si affida la formazione – inevitabilmente labile e mutevole – dell´idea che una società ha di sé, nel bene e nel male.
All´Università, immersa in questo contesto, le riforme recenti hanno chiesto molto meno di quanto pretendesse l´età delle borghesie nazionali: di essere non un “tempio del sapere” (che, certo, era spesso stato ridotto a un bordello) ma un “servizio sociale” di trasmissione di relativamente poche competenze a giovani che scuole sempre meno selettive hanno reso sempre meno colti e meno adatti allo studio (secondo l´accezione tradizionale di cultura e di studio, s´intende); e di essere semmai in grado di produrre sapere avanzato in pochi centri d´eccellenza, inseriti nelle reti internazionali, che indirizzano la ricerca dove di volta in volta i poteri economici e politici indicano (fare scienza, oggi, dipende dai finanziamenti).
Così, oggi il professore – di ambito umanistico in senso lato – difficilmente può svolgere un vero corso monografico (quello in cui il docente proponeva ai discenti, già ben formati dai Licei, una propria nuova riflessione su un argomento specialistico da lui approfondito), ma ripete le linee guida della disciplina, che diventa così un sistema schematico, dogmatico, poco interessante; e, pur potendo contare su conoscenze sempre minori negli studenti, è costretto da uno dei meccanismi-chiave della riforma (il sistema dei crediti) a limitare moltissimo il programma d´esame in termini di pagine assegnate da studiare (nei tre esempi di fianco all´articolo mostro come siano cambiati i programmi dal ´68 a oggi), e a servirsi sempre più di manuali e antologie (con i problemi di immiserimento del Canone – delle conoscenze imperdibili – che ciò comporta). Il contatto con i testi del passato risulta così sempre più limitato e sporadico, sempre più edulcorato e mediato e facilitato, e semmai recuperato (ma non sempre) come specialismo nel terzo livello, quello del Dottorato di Ricerca (peraltro in grave crisi d´identità).
Quando il Professore era un Padre della Patria poteva decadere a Balanzone o a Scienziato pazzo; ora è un Tecnico fra gli altri, che rischia di diventare un subalterno travet, uno stanco ripetitore sottopagato e delegittimato, rassegnato a continue valutazioni quantitative per non essere additato all´opinione pubblica come Fannullone (le riforme in corso, compresa la riforma Gelmini che andrà in aula in Senato il 22 luglio, vanno in questa direzione); così che, date anche le specifiche difficoltà del sistema universitario italiano ad aprirsi a giovani di merito, le forze migliori sono tentate di emigrare, o – deluse – di pensionarsi anticipatamente. Di per sé il declino e il tramonto della figura del “chierico” sarebbe una questione poco importante, se non per gli interessati. Ma se l´Università non è più l´anima della società, se non è più il luogo di formazione delle élites, e se in tali ruoli non è sostituita da nulla, o semmai solo dall´iperspecialismo, allora si aprono problemi che non riguardano solo i professori ma tutti. Che non sono cioè problemi corporativi o tecnico-settoriali, ma politici. E che come tali andrebbero valutati e trattati.

La Repubblica 20.07.10

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