economia, politica italiana

"Più austerità per tutti. O no?", di Martin Wolf

Risanare o non risanare, questo è il problema. Ed è un problema su cui le autorità cominciano a dare risposte diverse. Fanno bene? Se gli argomenti in favore del risanamento sono corretti, non risanare provocherebbe scossoni drammatici sul fronte dei conti pubblici e del settore finanziario in alcuni tra i paesi più importanti del mondo. Se gli argomenti in favore del risanamento non sono corretti, risanare metterebbe a rischio la ripresa e potrebbe scatenare altri terremoti finanziari.
Da che parte stanno quelli che decidono? La dichiarazione seguita al vertice del G-20 di Toronto affermava: «Esiste il rischio che un risanamento dei conti pubblici sincronizzato in molte delle principali economie possa avere un impatto negativo sulla ripresa. Esiste altresì il rischio che non applicare misure di risanamento dove necessarie mini la fiducia e ostacoli la crescita».
È un linguaggio molto più prudente di quello adottato al vertice di Pittsburgh, nel settembre del 2009, che affermava spavaldamente: «Oggi ci impegniamo a prorogare le misure forti che abbiamo adottato per reagire alla crisi fino a quando la ripresa non sarà saldamente avviata. Agiremo in modo da garantire che con la crescita riparta anche l’occupazione. Eviteremo qualunque ritiro prematuro delle misure di stimolo».
Che cosa è cambiato, allora?
Innanzitutto che la ripresa mondiale sembra più solida del previsto. Nell’aprile del 2009, all’epoca del vertice del G-20 di Londra, la previsione di crescita economica globale per il 2010 erano intorno all’1,9 per cento. A settembre aveva raggiunto quota 2,6 per cento. A giugno 2010, il 3,5 per cento. Negli Stati Uniti, la previsione di crescita per il 2010 era dell’1,8% ad aprile 2009, del 2,4 a settembre e del 3,3 a giugno. Anche per la zona euro le previsioni sono state riviste leggermente al rialzo, dallo 0,3% dell’aprile 2009 all’1% di settembre e all’1,1 di giugno.
In secondo luogo ci sono state le crisi di bilancio in Grecia e in altri paesi periferici dell’euro, e in più c’è stato il risultato delle elezioni britanniche, con la nascita di un governo di coalizione. La fuga dal rischio ha assunto proporzioni enormi. Non bisogna cioè esagerare la portata del risanamento. Questo giustifica un’altra stretta dei conti pubblici, specialmente nel Regno Unito, e molti pensano che i tagli previsti non siano ancora sufficienti.
Quali gli argomenti per questa tesi? Una posizione estrema è quella di chi sostiene che i disavanzi di bilancio non hanno nessun impatto sull’attività economica perché inducono a comportamenti compensativi da parte dei privati. Pertanto, se lo stato accumula debito, il privato cittadino risparmia perché sa che alla fine le tasse aumenteranno. Un’altra posizione estrema è quella di chi crede che una drastica recessione serva a purgare l’economia dagli eccessi del passato, portando a un’economia e a una società più sane. Queste visioni radicali hanno una certa influenza sulla politica in senso ampio, ma scarsa influenza su chi prende le decisioni. Ma allora quali gli oggetti del contendere a questo livello?
Quelli del «tagliamo subito»
Sostengono che disavanzi tanto forti mettono a rischio la credibilità di bilancio sul lungo periodo e producono effetti depressivi sulla fiducia e sulla spesa del settore privato. Se nel 2008 e all’inizio del 2009, in pieno panico, aveva senso aggiungere stimoli di bilancio agli stabilizzatori automatici, ora è il momento di tirare il freno. Il rischio, altrimenti, è un’impennata del costo del credito, con risultati pesanti. Il calo permanente del reddito e della produzione determinato dalla crisi, con l’invecchiamento della popolazione, rendono urgente e ineludibile agire.
Infine, se l’economia dovesse indebolirsi per la stretta dei conti pubblici, la politica monetaria può risultare molto efficace, incoraggiando gli investimenti e svalutando la moneta in modo da incoraggiare anche le esportazioni. Molti esponenti di questa corrente di pensiero sostengono che la risposta migliore è ridurre la spesa. Questo, dicono, è l’insegnamento da trarre dai risanamenti dei conti pubblici del passato.
Quelli del «tagliamo poi»
Concordano che bisogna intervenire con decisione sulla spesa a lungo termine, ma richiamano l’attenzione sulla fragilità della ripresa e in particolare sulle colossali eccedenze del settore privato. È questa frugalità dei cittadini, insistono, che è all’origine dei disavanzi, non il contrario. La successione degli eventi lo dimostra chiaramente.
Inoltre, stiamo assistendo a un fuggi fuggi verso i beni-rifugio: per l’investitore preso dal panico, non c’è nessuna alternativa ai titoli di stato di governi con un rating alto, in particolare gli Stati Uniti, che sono il paese che emette la valuta-rifugio del pianeta, ruolo ulteriormente accresciuto dalla crisi della zona euro. Inoltre, i tassi d’interesse a lungo termine dei principali paesi stanno diminuendo, non aumentando: negli Stati Uniti i tassi sui titoli di stato decennali sono al 3 per cento. Dove sono allora questi rischi per la fiducia?
Infine, aggiungono i seguaci di questa linea di pensiero, con i tassi d’interesse prossimi allo zero la politica monetaria serve a ben poco se non a sostenere un allentamento del rigore di bilancio. Quei paesi che dispongono di una propria Banca centrale hanno la fortuna di poter finanziare il disavanzo in modo diretto. Questo non vale per la zona euro, che in pratica utilizza una valuta straniera. Fintanto che l’eccesso di capacità produttiva resta così alto e la normale attività creditizia delle banche resta così debole, fare affidamento sullo “stampar moneta” della Banca centrale non crea pericoli inflattivi. Al contrario, il pericolo è che un risanamento prematuro delle finanze pubbliche inneschi un forte rallentamento dell’economia come successe in Giappone negli anni 90, affondando economie importanti nella deflazione.
L’effetto combinato di un forte indebitamento e della deflazione potrebbe creare, a loro parere, una spirale al ribasso. Un “decennio perduto” alla giapponese incombe sul mondo sviluppato, ed è un’eventualità particolarmente probabile se i vari paesi decideranno di risanare tutti insieme. Quello che serve è semmai un ulteriore allentamento: nel primo trimestre del 2010, il Pil di ogni membro del G7 era ancora al di sotto del livello di picco di prima della crisi.
Io pendo fortemente dalla parte di chi vuole rimandare il risanamento. Ma su una cosa tutti sono d’accordo: questo dibattito è importante. Non possiamo sapere con sicurezza chi ha ragione e chi ha torto. Ma possiamo star certi che se le autorità dovessero sbagliare scelta, i risultati potrebbero essere drammatici.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

LE PAROLE

DEFICIT PUBBLICO. È la differenza negativa tra entrate e uscite statali. Il suo effetto dipende molto dalle situazioni, ma nel breve periodo tende ad aiutare la crescita. Va finanziato con il debito pubblico, che aumentando diventa costoso fino all’insostenibilità, e alimenta i dubbi sulla sua stessa affidabilità.
EXIT STRATEGY. È la “strategia di uscita” dalle politiche economiche straordinarie – tassi bassi e spese pubbliche – lanciate per superare la crisi finanziaria e la recessione. Il nodo è il tempo: arrivare troppo presto potrebbe frenare la ripresa, troppo tardi potrebbe creare problemi di debito pubblico e/o inflazione.
INFLAZIONE. Tassi bassi e liquidità aiutano la crescita ma, nel tempo e se l’offerta di moneta supera certe soglie, possono far salire e di molto i prezzi al consumo (l’inflazione) o, più facilmente, gonfiare le quotazioni finanziarie o immobiliari. È un effetto lontano nel tempo, e quindi più difficile da prevenire.
PITTSBURG 2009. È stato il meeting del G-20 che ha lanciato il «Quadro per una crescita economica sostenibile». Molto ambizioso e coraggioso, il programma è stato però ridimensionato dal G-20 di Toronto, anche perché le previsioni economiche per il 2010 sono progressivamente migliorate.

STIMOLO. Le economie hanno avuto bisogno di stimoli pubblici straordinari per evitare una caduta a spirale. Nei paesi ricchi la politica monetaria ha portato i tassi d’interesse tra lo zero e l’un per cento, inondando il sistema di liquidità, quella fiscale ha aumentato le spese pubbliche.

Il Sole 24 Ore 20.07.10