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"Sottopagato e sfruttato ma indispensabile", di Benedetta Tobagi

Non sono più giovanissimi: hanno in media 45 anni. Il loro lavoro nelle università statali e negli enti di ricerca pubblici amplia gli orizzonti della conoscenza a beneficio di tutta la società: dalle nanotecnologie alla biogenetica, dalla fisica delle particelle alla paleontologia, dalla ricostruzione dei papiri alessandrini al diritto del lavoro. La ricerca in università dovrebbero farla tutti, dai dottorandi ai professori, ma solo loro la portano iscritta nel nome come un destino. Eppure, spesso non possono praticarla come dovrebbero (e vorrebbero): perché mancano i fondi, o perché oberati di incarichi che poco hanno a che fare con il loro contratto. I reportage spesso ce li hanno mostrati come carbonari, rintanati in laboratori privi delle infrastrutture essenziali, mentre la retorica governativa oggi li accomuna ai “baroni”, arroccati a difesa dei propri privilegi. Che spesso, per loro, si riducono alla mensa a prezzo politico. Martiri o fannulloni: chi sono i ricercatori?
Nella gerarchia accademica, sono la fascia intermedia tra i gironi dei dottorandi, dottori di ricerca, “borsisti” e “assegnisti” (i “precari” dell´università) e l´empireo dei professori. Sono circa 25 mila (pochi in rapporto alla popolazione attiva, rispetto alla media Ue). Navigando nei blog in cui si scambiano esperienze e doglianze scopriamo una vita di grossi sacrifici, innanzitutto economici. I ricercatori guadagnano poco. Questo, oltre a mortificare socialmente e mettere a dura prova la resistenza di chi svolge un lavoro impegnativo e super-qualificato, riduce la competitività: a queste cifre, i più bravi cercano un posto all´estero, dove si può guadagnare più del doppio. Ma sono soprattutto le frustrazioni e i soprusi di un sistema di fatto feudale (magistralmente Nicola Gardini nel libro I baroni, Feltrinelli) ad avvelenargli l´esistenza. Molti abbandonano: sopravvivere richiede una capacità di adattamento e di sopportazione molto elevata. Certo, il lavoro intellettuale ha bisogno di volontà, autodisciplina e spirito di sacrificio. Ma siamo certi che tacere e adattarsi siano le virtù migliori da promuovere in figure la cui attività principe, la ricerca, richiede originalità di visione e spirito critico? Per cui ben vengano, i fermenti di questi mesi. Perché l´università è assai poco democratica: i ricercatori rappresentano il 40 per cento del personale di ruolo, ma non hanno quasi voce in capitolo nelle scelte strategiche di un ateneo. Con la riforma Gelmini andrà peggio: cda e senato accademico perderanno gli attuali caratteri di rappresentatività, lamenta Piero Graglia, un ricercatore come tanti, uno dei coordinatori della “Rete 29 aprile” che censisce e dà voce alle posizioni di ben 15 mila ricercatori in tutta Italia, impegnati per ovviare a questo deficit di democraticità e contro la riforma Gelmini.
Ma servono davvero i ricercatori? Se sparissero, cosa accadrebbe?
Per prima cosa, la paralisi della didattica universitaria. Non è un esercizio di fantascienza: per protesta i ricercatori minacciano di astenersi dall´attività didattica, mettendo a rischio l´anno accademico e interi corsi di laurea in molti atenei. Si limitano ad applicare la legge: anche se molti studenti li chiamano “prof”, sono solo “dott” (vedi box). Ma la didattica universitaria oggi è “drogata”, il massiccio ricorso alle docenze dei ricercatori (circa il 30 per cento degli insegnamenti), spesso non retribuite, sempre sottopagate, è coinciso con l´esplosione dell´offerta formativa nell´università del “3+2”. Spesso non c´è una maggiore articolazione dei saperi, specchio dell´accresciuta complessità del presente, ma doppioni e frammentazione che rispondono piuttosto a logiche di marketing («e di “bulimia baronale”», aggiunge Graglia). I ricercatori hanno sempre insegnato: per formarsi, per senso del dovere, passione, prestigio. La riforma Moratti ha messo una pezza (vedi box), ma è iniquo che l´università speri di sopravvivere sfruttando i ricercatori in veste di professori, senza che ne abbiano lo status né la retribuzione. La nuova riforma non affronta questo nodo, e nemmeno razionalizza l´offerta formativa. L´astensione dalla didattica, che preoccupa ministero, presidi e rettori, dovrebbe funzionare (questo è l´intento dei ricercatori) come black out, che mette a nudo un deficit di energia strutturale: occorre far prendere coscienza al governo e a tutti i cittadini che il sistema veleggia verso il collasso. I pensionamenti nei prossimi anni lasceranno scoperte molte cattedre. Non ci sono soldi per rimpiazzare tutti i professori. Si può dissentire col metodo della protesta, ma l´emergenza che impone all´attenzione del pubblico è reale.
Nelle università statali la necessità di pagare gli stipendi e tenere in piedi la struttura in presenza di forti tagli peggiora la situazione di cronica carenza di fondi per la ricerca. Un black out qui non darebbe esiti plateali: l´alta ricerca è un´impresa che dà i suoi frutti nel lungo periodo. Ma è strategica per il paese. Per capirlo, basta dare un´occhiata al recente Rapporto sulle biotecnologie in Italia (tipico settore research-intensive) dell´Ice: a dispetto della crisi, questo settore nato solo 10 anni fa prospera e compete a livello internazionale (grazie ai privati: anche qui l´investimento pubblico è insufficiente). L´importanza dell´alta ricerca non sta solo nel suo ritorno in termini economici: seppure assai decaduta, l´università resta pur sempre la fucina del progresso scientifico, del pensiero che si arma per decodificare una realtà in veloce cambiamento e agire di conseguenza. Non si può imputare alla riforma Gelmini la cronica povertà degli investimenti, né i guasti di 20 anni di riforme universitarie monche e miopi, da destra e sinistra, che non hanno intaccato i vizi strutturali del sistema. Questa riforma però mette ulteriormente a rischio e sotto pressione il capitale umano, la risorsa più preziosa dell´università, e non solo perché taglia i fondi. I nuovi ricercatori saranno a tempo determinato. Poi dipenderà dalla copertura finanziaria. Elevato il rischio che molti siano bloccati o espulsi dal sistema. «I 25 mila ricercatori di oggi, e quelli a tempo determinato del post-Gelmini, si troveranno a competere per sempre meno posti da professore associato. Una “guerra tra poveri” a fronte di un potere baronale intatto, che avrà in mano come sempre i concorsi», spiega Graglia. La “Rete 29 aprile” ragiona piuttosto sull´introduzione di un ruolo unico per tutti, professori e ricercatori, articolato in livelli: progressione per maturità scientifica e anzianità, valutazione triennale su produzione scientifica e didattica. Se il professore lavora male niente avanzamenti, ultima ratio allontanamento dall´università: «Per generare vera competizione e uno choc generazionale, anziché una guerra tra poveri».
Le proteste dei ricercatori pongono problemi da risolvere nell´interesse di tutta la società, che sarà danneggiata se l´università, impoverita e ridotta a un super-liceo, smetterà di essere la fucina di innovazione, cultura e pensiero che dovrebbe essere.

La Repubblica 21.07.10

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“Il falò delle Università”, Giunio Luzzato – Università di Genova

Il governo strozza finanziariamente gli Atenei ma dice che forse si potrà dar loro qualche briciola in più se verrà approvata la legge, in discussione al Senato, che tarperà le ali ai baroni e perciò farà sì che le università spendano meglio. Ferm o restando che non ha senso uccidere il malato in attesa delle terapie, va contestata anche l’altra parte del discorso: non è affatto vero che la proposta colpisca i vizi reali del sistema universitario. La maggior parte delle critiche alla legge ha però un taglio diverso. Si protesta per le supposte violazioni all’autonomia, registrando un’ampia convergenza tra i conservatori accademici e quelle aree “progressiste” che difendono posizioni corporative: l’Università per essere pubblica dovrebbe essere l’unico ente gestito esclusivamente dai propri dipendenti. È l’alleanza che da mezzo secolo blocca qualunque tentativo di seria riforma universitaria. Sarebbe ora che si riconoscesse invece che molti mali derivano dal pessimo uso che dell’autonomia è stato fatto. La si è interpretata non come costruzione di organi di governo forti, capaci di fare scelte strategiche, ma come cogestione consociativa: le risorse (quando c’erano) sono state distribuite a pioggia perché nessuno doveva interferire con ciò che fa un collega. I docenti “virtuosi”, quelli che servono l’università con un lavoro spesso impegnatissimo, non sono riusciti a marcare una netta contrapposizione con chi dell’università invece si serve. Nel testo attuale, dicevo, la legge in esame non colpisce questi ultimi; anzi, modifica la normativa in senso lassista. Dal 1980 si distinguono professori a tempo pieno o a tempo definito; per i primi viene ampliato il ventaglio delle attività esterne ammissibili (il tempo diventa sempre meno pieno), per i secondi viene soppresso il divieto di assumere cariche accademiche. Dal 2005 l’obbligo tradizionale di 60ore di lezione all’anno era stato portato a 120 (all’anno, ripeto); è ben vero che i cavilli in cui i giuristi universitari eccellono hanno indotto alcuni Atenei a non applicare la regola, ma oggi essa verrebbe addirittura abrogata. Di ciò non si parla per nulla, mentre si vuole evitare che i compiti decisionali competano, come in qualsiasi ente, al consiglio di amministrazione (nel quale le deplorate presenze esterne sono già state ridotte a tre su undici componenti). Se da sinistra non si porrà al primo posto l’esigenza di una gestione diversa, che emargini chi fa i comodi propri, i conservatori e il ministro Gelmini vinceranno, anche perché l’opinione pubblica non si mobilita certo a favore dell’attuale sistema accademico.

L’Unità 21.07.10

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