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"Vince la libertà non la legalità", di Massimo Giannini

«Questa legge non può passare, e non passerà», aveva scritto “Repubblica” all´inizio della battaglia sulle intercettazioni telefoniche. Non era un ideologico «grido di battaglia» contro la legge-bavaglio voluta a tutti i costi da Silvio Berlusconi, che minaccia i diritti di libertà e i principi di legalità. Era invece una rischiosa ma convinta «scommessa» sulla forza della democrazia. La scommessa racchiudeva, da una parte, un atto di fiducia verso le istituzioni repubblicane, nonostante le continue aggressioni del presidente del Consiglio. Dall´altra, un investimento sull´opinione pubblica, nonostante le continue manipolazioni dell´agenzia Stefani berlusconiana.
È ancora presto per trarre conclusioni definitive: l´iconografia del Caimano ci ricorda che proprio nei momenti più drammatici il colpo di coda è sempre possibile. Ma allo stato degli atti, la giornata di ieri dice che almeno una parte di quella scommessa è stata vinta. Per ora Berlusconi incassa una sconfitta durissima, dentro la sua maggioranza e di fronte al Paese. Il governo, suo malgrado, è costretto a far suoi gli emendamenti sul diritto di cronaca. Se la Camera li voterà e li approverà, i diritti di libertà saranno salvi.
I giornali potranno continuare a fare il proprio dovere, cioè informare i cittadini su tutte le inchieste che svelano le trame del potere politico, economico e criminale. I cittadini potranno continuare ad esercitare un loro diritto, cioè essere informati di tutto ciò che le intercettazioni svelano sul malaffare della «casta». È una buona notizia. Sul piano della politica, conferma la tenuta dell´asse istituzionale tra il presidente della Repubblica e il presidente della Camera. Napolitano e Fini, in modi diversi e con ruoli diversi, sono riusciti a fermare il tentativo tecnicamente eversivo del premier di stravolgere un principio garantito dalla Costituzione all´articolo 21. Sul piano della democrazia, conferma che a volte anche il «berlusconismo da combattimento», quello più pericoloso perché tendenzialmente dispotico e irresponsabile, può essere fermato.
La modifica alla legge proposta dalla presidente della commissione Giustizia, la finiana Giulia Bongiorno, è convincente dal punto di vista culturale e procedurale. Cade la norma liberticida che vietava ai giornali di pubblicare qualunque intercettazione fino alla richiesta di rinvio a giudizio o all´inizio dell´udienza preliminare. Al suo posto, l´emendamento prevede la cosiddetta «udienza-stralcio», con la quale le parti (difesa ed accusa) decidono insieme davanti al giudice (durante le indagini preliminari e prima del dibattimento) quali siano le intercettazioni «rilevanti» (dunque pubbliche e pubblicabili) e quelle irrilevanti (dunque da secretare o da distruggere). Una norma di assoluto buon senso.
La stessa che aveva proposto su questo giornale Giuseppe D´Avanzo due anni fa, e che “Repubblica” da allora ha sempre rilanciato con forza, in editoriali, convegni e trasmissioni televisive. Scriveva D´Avanzo, nel suo commento intitolato «La via maestra per una riforma»: «Occorre separare le conversazioni utili a formare la prova da quelle, non utili, relative alla vita privata degli indagati e delle persone estranee alle indagini, le cui conversazioni siano state raccolte per caso. Bisogna separare le prime dalle seconde dinanzi a un giudice alla presenza delle difese e, per impedire la divulgazione e la pubblicazione delle conversazioni non utili alle indagini, è necessario estendere a questa procedura il vincolo della segretezza, prevedendo sanzioni severe per i trasgressori…».
L´articolo uscì l´11 giugno del 2008. Un´epoca «non sospetta», per così dire. Che dimostra quanto sia strumentale l´ideologia propagandistica usata da Berlusconi per spiegare la necessità e l´urgenza di questa legge-bavaglio: la presunta «tutela della privacy». E che dimostra quanto sia debole il pensiero di quegli intellettuali gregari che in queste settimane si sono affrettati a salire sul carro del premier, proprio in nome di un intangibile (e perciò insostenibile) «primato» della privacy. Di cui al premier (con tutta evidenza) non interessa nulla. E di cui “Repubblica”, invece, si è fatta responsabilmente e concretamente carico da almeno due anni.
Ma se con questo emendamento cade almeno il «bavaglio», questa legge non rinuncia affatto a colpire il «bersaglio» che riguarda l´agibilità delle intercettazioni da parte della magistratura. Questa parte della «scommessa» appare tuttora irrimediabilmente persa. Se questa legge sarà approvata, pur con tutte le modifiche apportate anche su questo versante dai volonterosi finiani, i principi di legalità ne usciranno gravemente lesionati. Non basta aver prolungato le «proroghe» alle intercettazioni di 15 giorni in 15 giorni, dopo i 75 categoricamente fissati come limite da questo dissennato provvedimento: per i pm questo sarà un ulteriore intralcio alle indagini, e non solo di natura burocratica. Non basta aver parzialmente corretto l´abominio della «prova diabolica» richiesta per poter procedere alle intercettazioni ambientali, o aver ripristinato la procedibilità innescata dalle intercettazioni sui cosiddetti «reati spia».
Rimane l´impianto fortemente limitativo all´uso di questo prezioso strumento di investigazione e di raccolta delle prove, come confermano tutti i magistrati impegnati in prima linea persino nei reati contro le mafie, da Pietro Grasso ad Antonio Ingroia. Questa «danno», enorme per la sicurezza del Paese e incalcolabile per la difesa della legalità, è stato ridotto. Ma in misura tuttora intollerabile per uno Stato di diritto.
E allora, cosa resta di questa pessima legge, se non l´insensata ma gravissima deformità che arreca al nostro sistema giuridico? Cosa resta se non l´innaturale ma profondissima torsione delle regole che sovrintendono alla prevenzione e alla persecuzione di tutte le forme di criminalità, organizzata e comune, politica ed economica? Questo sembra, tuttora, il prezzo da pagare alla «lucida follia» berlusconiana. Il premier, ieri, ha sostanzialmente dichiarato la «resa». Ha ammesso che questa legge, così emendata, non serve a niente: voleva impedire che «milioni di cittadini» venissero spiati, e «per colpa» delle modifiche imposte da Fini e ispirate da Napolitano non sarà così. «Gli italiani continueranno a non poter parlare al telefono», ha commentato il presidente del Consiglio, spacciando all´opinione pubblica l´ennesima menzogna.
Ma aggiungendo una chiosa che non può non preoccupare chiunque abbia a cuore il destino di questo Paese: se l´operazione legge-bavaglio non gli è riuscita e non gli riuscirà come lui avrebbe voluto, la colpa è di «quell´architettura costituzionale italiana basata sull´equilibrio tra i diversi poteri, che impedisce l´ammodernamento dell´Italia». Non è solo la grottesca auto-assoluzione di un leader ormai sprofondato nel regno dell´irrealtà, che maschera la sua difficoltà e la sua incapacità con il logoro e inservibile mantra del «non mi lasciano governare».
Sembra anche la guerresca minaccia di un uomo disperato, perciò pronto a rovesciare tutti i tavoli. E pronto ad attaccare un principio essenziale, forgiato in quattro secoli di storia occidentale, dai padri pellegrini del Mayflower nel 1620 ai padri fondatori della Repubblica nel 1948: la divisione e il bilanciamento dei poteri. Il cuore di tutte le costituzioni, l´essenza di tutte le democrazie. Questa, qui e nei prossimi mesi, rischia di essere la vera posta in gioco. È bene che gli italiani lo sappiano.

La Repubblica 21.07.10

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“La vera posta in palio”, di FRANCESCO LA LICATA

All’ultimo momento utile, forse la svolta: il contenuto delle intercettazioni potrebbe non essere più considerato un tabù insormontabile per gli organi di informazione.

Un emendamento del governo modifica infatti il precedente «divieto assoluto di pubblicazione» con il più «digeribile » ricorso a una prassi giudiziaria che stabilisca cosa può essere pubblicato e cosa no, sulla base di una valutazione che tenga conto della «rilevanza» dei colloqui intercettati.

È, questo, un risultato – ancora provvisorio, oltre che già contestato dallo stesso, deluso, presidente del Consiglio – che sarà interpretato a seconda delle convenienze politiche: una retromarcia del governo, una vittoria dei «finiani»,una mediazione intelligente del ministro Guardasigilli.

Lo si consideri come si voglia, l’aspetto che dovrebbe – più di ogni altro interesse – concentrare l’attenzione generale riguarda la bontà dell’iniziativa rispetto all’esigenza primaria di fare una legge che non mortifichi la libertà di stampa e salvaguardi il «dovere investigativo» dei magistrati, facendo salvo il diritto dei cittadini alla propria privacy. Questo dovrebbe interessare più di ogni altro calcolo di bottega.

I commenti più tempestivi parlano di una «buona partenza» per discutere, approfondire e trovare rimedi a quella che l’Associazione magistrati – riferendosi al disegno di legge iniziale – definisce la «devastazione» di uno degli strumenti investigativi più efficaci e cioè le intercettazioni telefoniche ed ambientali. E, in verità, l’emendamento di ieri dimostrerebbe come una più serena e meditata analisi delle problematiche avrebbe forse attutito il clima di scontro frontale creatosi con i magistrati e con gli operatori dell’informazione.

Certo, non tutti i protagonisti della querelle sono stati rasserenati dal «passo in avanti» del ministro Alfano, ma è indubbio che sia stato creato il presupposto per la ricerca di soluzioni più condivisibili. Saranno, in sostanza, le parti del processo a stabilire insieme la «rilevanza» che giustifichi la pubblicazione delle conversazioni intercettate. E anche i tempi non saranno quelli, lunghissimi,previsti dalla vecchia versione. Sarà la cosiddetta «udienza filtro» a regolare i limiti temporali della segretezza,un momento processuale che può precedere l’udienza per le indagini preliminari, anticipando così il limite che mantiene impubblicabili i contenuti delle intercettazioni. Sempre che, ovviamente, il giudice ne intraveda la necessità, altrimenti gli atti rimarranno segreti fino alla conclusione delle indagini. E proprio questo aspetto non ha convinto completamente gli organismi rappresentativi dei giudici (Anm e Csm) e dei giornalisti (Fnsi).

L’obiezione dei magistrati riguarda soprattutto la «farraginosità» di un sistema già appesantito e ostaggio di tempi infiniti. Proprio durante le precedenti discussioni, i magistrati avevano indicato quelli che, a loro parere, rappresentano seri ostacoli alle indagini, come il dover chiedere per l’attività di intercettazione proroghe ravvicinate nel tempo. Di mediazione in mediazione si è giunti al termine di quindici giorni che è già cosa diversa dal limite iniziale di 48 ore. Rimane la pesante ipoteca rappresentata dalla scelta di affidare ad un collegio una mansione che poteva essere espletata da un singolo giudice, vista la penuria degli organici presenti negli uffici della magistratura giudicante e inquirente. Insomma,il bicchiere c’è chi lo vede mezzo pieno e chi mezzo vuoto e non sarà il «passetto» di Alfano ad aprire la strada alla rapida approvazione del disegno di legge, considerate l’opposizione parlamentare e degli addetti ai lavori,ma soprattutto le divisioni interne alla maggioranza. Forse non sarebbe sbagliato tener presente che la posta in gioco è un tantino più importante della fisiologica rissosità politica, trattandosi di dover tenere ferma la barra nella lotta al malaffare e ad una criminalità che è tra le più forti del mondo.

La Stampa 21.07.10

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“Bavaglio. Compromesso Alfano-Bongiorno”, di Susanna Turco

Silvio Berlusconi ingoia malvolentieri il rospo impostogli dal pressing del Quirinale e dice che questa legge sulle intercettazioni è diventata inutile, Gianfranco Fini incassa soddisfatto lo scacco quasi matto e parla di “compromesso”, ma certo nemmeno lui si azzarda a dire che possa mai diventare una buona legge: “Era una legge pericolosa, adesso per bene che vada sarà disinnescata”, spiegano i suoi. Allo stato, dunque, in fondo i giudizi di berlusconiani e finiani coincidono: la legge “rischia” di diventare pressoché inutile, solo che gli uni se ne dispiacciono, gli altri se ne compiacciono. Come finirà è presto per dire, intanto l’Anm dà l’ok e la miglior fotografia del giorno la fa uno sconsolato Caliendo: “Con questo nuovo emendamento, della cosiddetta P3 i giornali avrebbero potuto scrivere esattamente come hanno scritto fino ad ora”, sospira il sottosegretario alla Giustizia– anch’egli coinvolto nella inchiesta sugli appalti per l’eolico – confermando quel che nei conversari scafati del Transatlantico viene denominato “il calar di braghe anche sul bavaglio alla stampa”.

La svolta arriva a ora di pranzo, dopo una nottata febbrile di scambi di mail, fax e pareri tra i protagonisti della trattativa, dopo un ulteriore slittamento dei lavori in commissione Giustizia e dopo voci insistenti sul fatto che Berlusconi fosse tentato di mandare tutto all’aria e semmai ripensarci a settembre. E’ un maxi emendamento del governo (firmato dallo stesso Caliendo) che in sostanza fa cadere il divieto assoluto, finora previsto tal quale sia nel testo licenziato alla Camera che in quello approvato al Senato, di pubblicare le intercettazioni fino alla conclusione dell’indagine preliminare. Il meccanismo, adesso, diventa tutto un altro: il segreto c’è, ma cade nel momento in cui il gip, di intesa con accusa e difesa, decide quali parti delle intercettazioni sono rilevanti e quali invece vanno secretate. Da quel momento, con la cosiddetta udienza filtro o nel caso in cui ci sia per esempio una ordinanza di custodia cautelare motivata sulla base di intercettazioni, gli “ascolti” utilizzabili dalle parti potranno essere pubblicati.

Partito democratico e Italia dei Valori restano insoddisfatti delle modifiche apportate, “un mezzo passo avanti” dice Bersani, eppure nella maggioranza quest’ultima proposta di modifica, che viene incontro alle perplessità del Quirinale sul bavaglio imposto alla stampa, provoca uno tsunami all’interno della maggioranza. La presidente della commissione Giustizia Giulia Bongiorno, insolitamente soddisfatta, parla addirittura di “balzo in avanti” e rilascia persino un’intervista a Sky. Il Guardasigilli Angelino Alfano riconosce che il nuovo testo “è senz’altro meno ambizioso, ma è l’unico punto di arrivo attualmente possibile” e si becca sottobanco gli attacchi dei falchi del Pdl, già scontenti degli emendamenti presentati dal Pdl Costa e dalla Bongiorno (più tempo per intercettare, reati spia equiparati a mafia e terrrorismo, ampliamento della possibilità delle ambientali) e ormai inclini alla litania che fino a qualche giorno fa era dei finiani: “Così stravolta, questa legge non la voto”, dice ad esempio l’iper berlusconiano Giancarlo Lehner.

Adesso, salvo ripensamenti, dovrebbe finalmente partire in commissione la partita sugli emendamenti. Già, perché fino ad ora le modifiche che dovrebbero sanare i rilievi critici mossi dal Colle sono state soltanto presentate dalla maggioranza: bisognerà vedere se sopravviveranno al vaglio del governo, all’ammissibilità degli uffici della Camera e, soprattutto, alla battaglia parlamentare. Di certo c’è che il maxi emendamento di ieri non avrà ostacoli di tipo tecnico, pur intervenendo in una parte non modificata nella doppia lettura. Grosso punto interrogativo, poi, per quel che riguarda l’approdo in Aula. Cicchitto ha già mandato ai suoi deputati un sms per dire di essere in Aula nella prima settimana di agosto, ma già s’avanzano le voci di chi, come Osvaldo Napoli, spiega che tra tempi tecnici e l’arrivo in aula di due decreti le cose si potrebbero complicare. Più che altro perché forse di correre non ne vale più la pena.

L’Unità 21.07.10