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"La riformetta dell'università", di Massimo Livi Bacci

Sull’università si sa tutto, o quasi. Ci sono analisi e saggi approfonditi, documenti e statistiche. Do per scontato che la maggioranza conosca la situazione e capisca la necessità di un rinnovamento.
Essa si era posta (almeno originariamente) obbiettivi non troppo lontani da quelli della mia parte politica e sui quali una convergenza, magari parziale, avrebbe potuto essere costruita. Attendevamo dunque una riforma, con la R maiuscola, una riforma capace di ammodernare il modo di creare scienza e conoscenza, di diffonderle, di trasmetterle. Ma al governo è mancato il coraggio.

Chi volesse ergersi a difensore dello stato attuale – e io non sono tra questi – qualche buona ragione potrebbe anche trovarla. Faccio solo un esempio. Lo stato della ricerca nel nostro paese non è poi così catastrofico: dalle graduatorie – quasi sempre citate per mostrare che gli atenei italiani stanno ai piani bassi delle classifiche – apprendiamo che la produzione scientifica nel campo della fisica pone l’Italia al settimo posto in campo internazionale, e ancora al settimo posto sta il nostro paese nell’ambito della biologia molecolare e della genetica. In ogni caso, non si lotta per il podio (riservato agli Stati Uniti, al Giappone e alla Germania) ma non siamo tra i reietti. Certo il sistema è afflitto da colpevoli sprechi, da insopportabili sistemi di padrinaggio, da non scusabili assenteismi ma – direbbe nella sua arringa un difensore – con tassi assai minori di quelli prevalenti in altri comparti dell’amministrazione pubblica.

Sentita la difesa, l’accusa ha, purtroppo, buoni argomenti: il sistema ha proliferato irrazionalmente moltiplicando sedi e corsi; ha frammentato eccessivamente il sapere e le discipline, inseguendo acriticamente una “domanda” evanescente e poco informata; ha protetto le chiusure locali e disciplinari a fronte delle aperture internazionali; ha scoraggiato la mobilità degli studenti e quella dei docenti. Potrei continuare. Tutto questo, ed altro ancora, chiede una Riforma con la R maiuscola. Ma il ddl 1905 non è una riforma coraggiosa, ma un pavido bricolage. Il ddl dà forse più risorse, riconoscendo la priorità della conoscenza nel cammino dello sviluppo? No, le riforme sono a costo zero – ma uno zero… nel negativo (mi perdonino i matematici), perché le risorse sono già state pesantemente tagliate e più lo saranno in seguito. Si occupa di recuperare i finanziamenti privati, con un’intelligente politica fiscale? Giammai. Dà sostanza all’asserita ispirazione liberale del provvedimento, permettendo agli atenei di organizzarsi al meglio, seguendo la vocazione e l’opportunità? Non se ne parla, si centralizza a tutto spiano. Incoraggia gli studenti che meritano? Solo a parole, con le medaglie di latta erogate dal fondo per il merito, un salvadanaio senza denaro pubblico e con poca speranza – così come strutturato – di attrarre l’obolo privato. Si occupa del diritto allo studio? Ma quando mai: ci pensino le regioni. Valuta il merito degli atenei, dei dipartimenti, dei docenti della ricerca, degli studenti? A parole, perché l’Anvur – l’agenzia di valutazione – è tuttora un guscio vuoto né ci sono piani per costituirne le capacità tecniche per fare il suo difficile mestiere. Dà una soluzione al problema dell’invecchiamento del corpo accademico – invecchiamento, si badi bene, dovuto alla mancanza di ingressi di giovani alla base della piramide? Non sembra proprio.

Se mi fosse concesso più spazio, potrei analizzare in maggiore dettaglio anche altre inadeguatezze del provvedimento: penso al reclutamento dei docenti per cui si è congegnato un sistema doppio, dispendioso e poco efficiente o penso sempre al fondo per il merito e mi chiedo a tal proposito quale privato vorrà mai mettere denaro nel fondo, gestito dalla Consip, organizzato secondo criteri definiti dall’economia, e che non riceverà finanziamento pubblico.

C’è un consenso diffuso sulla necessità di valorizzare il merito, di adottare meccanismi di valutazione per farlo risaltare, di concedere autonomia che implica assunzione di responsabilità. Ma questi principi sbandierati anche dalla maggioranza sono traditi dal disegno di legge: non si valorizza il merito senza risorse; non si valuta a parole ma costruendo le capacità per farlo e l’Anvur, come detto prima, è un fantasma; non si coltiva la responsabilità centralizzando e togliendo autonomia. Il Pd, che voterà convintamene contro questo disegno di legge, era ed è pronto per una coraggiosa riforma, non per un bricolage dell’esistente.

da Europa Quotidiano 23.07.10