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«Come sara’ il nuovo anno scolastico in Emilia Romagna?», di Gian Carlo Sacchi

Parlare di nuovo anno scolastico evoca un’immagine un po’ sbiadita in una regione che aveva l’ambizione di esibire elevati standard di qualità, anche a livello internazionale, e soprattutto la capacità di costruire un “sistema”, dall’infanzia all’età adulta, che avesse una notevole coerenza interna e facesse di questo servizio il motore dello sviluppo.

La difficoltà sarà certo dettata dai tagli così detti lineari dello stato, sia in termini di risorse finanziarie che di personale, per quanto riguarda la maggiore presenza della scuola statale, già in atto da due anni e non ancora conclusi, che vengono aggravati dalle ulteriori e più recenti diminuzioni di risorse trasferite alle regioni ed agli enti locali dalla manovra economica. Non c’è dubbio che il precipitare di questa situazione, complice una crisi che non mancherà di far sentire le proprie conseguenze anche sui diritti soggettivi delle persone, che pensavamo ormai acquisiti, nel nostro caso il diritto allo studio, non ha lasciato il tempo per riorganizzare il governo delle risorse, a cominciare dal dare concreta attuazione a tutta una serie di provvedimenti che da tempo parlano di decentramento, sussidiarietà e di federalismo, compresa una modifica approvata con referendum confermativo della Costituzione.

L’ Emilia Romagna, in questo contesto, è stata la prima regione a dotarsi di una legge di sistema, alla quale non sono seguiti coerenti strumenti di governo, a cominciare dalle deleghe politico – amministrative. Mantenere i servizi per l’infanzia nel welfare, dopo aver tanto sbandierato la funzione formativa degli interventi tra 0 – 6 anni, sembra davvero un’operazione antiquata; non avere mai applicato adeguatamente quanto indicato nella predetta legge in materia di istruzione degli adulti, nonostante averne accentuato la portata in un’altra legge che si è occupata di lavoro, pone anche questa regione in difficoltà con i parametri di Lisbona. Aver lasciato progressivamente scemare il principio di integrazione tra istruzione e formazione professionale fa si che ci si trovi a rincorrere quello che nel frattempo è stato ribadito a livello nazionale con la riforma degli istituti professionali, nell’intesa stato – regioni per quanto riguarda le modalità di perseguire i nuovi profili professionali nazionali. Mandare avanti una gracile configurazione geografica dei “poli tecnici” e poi diffondere sul territorio una serie di corsi IFTS e post diploma mette in evidenza la necessità di un governo della formazione superiore, sia dal punto di vista dei distretti che da quello della rete regionale, se si pensa al potenziale contenuto in tali progetti per quanto riguarda il coinvolgimento delle università e delle imprese ed alle prospettive che riguardano l’istituzione degli Istituti Tecnici Superiori (ITS).

Sentir dire al nuovo assessore regionale, monco comunque di una delega, che consente di costruire non solo in termine di gestione, ma di progetto, un sistema educativo – scolastico – formativo regionale, che “l’impegno della regione è quello di lavorare per aumentare i ponti e le interconnessioni tra i due sistemi”, riapre una prospettiva, anche se rammarica l’aver lasciato andare quello che c’era, che pur con alcuni correttivi amministrativi, avrebbe potuto essere generalizzato, cosa che sul piano del progetto didattico hanno fatto regioni di opposte tendenze politiche, e che oggi viene auspicato, come si è detto, anche a livello nazionale.

Non è molto diverso infatti il lavoro progettuale realizzato in regione, sia durante il ministero Moratti, sia quello Fioroni, entrambi tesi cioè a costruire degli standard formativi equiparabili, per risultare appunto più equi, soprattutto nell’ottica dell’assolvimento dell’obbligo di istruzione in entrambi i canali.

Si nota con piacere che attorno a questa affermazione si tende a convergere, ma lo si può fare davvero solo se si lavora insieme. Come accadeva nei percorsi integrati che veniva rilasciata una qualifica triennale riconosciuta in entrambi i sistemi, e che sul piano giuridico si poteva definire surrogatoria, sussidiaria, o in altra maniera, ma su quello pedagogico – didattico teneva sotto controllo gli standard formativi ed il contenimento della dispersione.

Deve essere chiaro che da un lato le così dette passerelle non si sono rivelate uno strumento efficace di collegamento, l’abbandono è aumentato, degli standard formativi non si parla, e quindi dell’equità non ne sappiamo un gran che, e, dall’altro, dal punto di vista gestionale bisogna che vengano accreditate anche le scuole ad intervenire nel settore formativo, come avviene in altre regioni.

Sono condivisibili le indicazioni dell’assessore circa le leggi regionali da mettere in cantiere: sistema regionale della ricerca e dell’alta formazione, recepimento delle nuove competenze costituzionali, autonomie scolastiche e istruzione e formazione professionale,lavoro, adulti. Tutte cose già perlopiù contenute nella legge 12/2003 e 17/2004, aggiornabili ovviamente, ma quello che interessa maggiormente è capire la scelta politica dell’Emilia Romagna su queste tematiche e le modalità per arrivare a compierle. Ci sono ormai diverse opzioni in circolazione: Lombardia, Toscana, ecc.; noi che non tanto lontani nel tempo, nel 2003, eravamo considerati all’avanguardia, e guardati come modello da imitare, adesso dove siamo ? Dove vogliamo andare ? Sarà bene che le leggi non si scrivano negli uffici, ma sui territori. Le nostre realtà sociali e professionali, dentro e fuori alle agenzie specialistiche, vanno coinvolte e valorizzate.

Lo spazio di flessibilità curricolare e organizzativa è aumentato nell’ordinamento statale; le qualifiche ci sono, i percorsi integrati possono essere ripresi quanto prima. Sono diminuiti i docenti negli istituti professionali, ma potrebbe non essere un ostacolo, se c’è un progetto condiviso ed efficiente, dove le culture professionali si possono realmente integrare sia nei contenuti, sia sul piano metodologico e delle azioni formative.

Tutto ciò è necessario anche per mantenere in efficienza un filone statale- regionale, che oggi è necessario, sia per combattere l’abbandono, sia per evitare l’allargamento del canale tra istruzione tecnica, destinata ad assorbire i professionali quinquennali, e formazione regionale, che verrà presa di mira sempre di più dai giovani a rischio e vittime degli insuccessi scolastici.

Un segno di sfilacciamento del sistema è dato dall’intesa che la Regione stipula con l’USR per l’attuazione dell’obbligo di istruzione. Si tratta di un documento che cerca di gestire le situazioni in bilico tra i due sistemi, ma è emblematica dello stato di allarme che interessa entrambi. Nel dispositivo si citano le buone intenzioni, a norma di legge, ma nel corpo si vedono aumentare le eccezioni e le deroghe. Questo da un lato evidenzia una politica nazionale che si limita a prendere atto di quel che accade nel sistema, abbandono compreso, e, dall’altro, fa vedere una formazione regionale debole, non ancora adeguata nemmeno alla qualifica triennale (2004).

E’ sempre più diffusa l’opinione, da diverse parti politiche, circa l’opportunità della frequenza di almeno un anno alla scuola superiore, anche in considerazione del fatto che la predetta LR 12 non consente l’ingresso alla formazione professionale ai ragazzi con meno di quindici anni. Ma è proprio qui che iniziano le deroghe, per coloro che avendo compiuto i quindici anni e che si trovassero magari ancora nella scuola media, “qualora le difficoltà al proseguimento del percorso di istruzione….risultassero insuperabili, occorrerà realizzare azioni di riorientamento, prospettando altre possibilità formative, compresi i corsi di formazione professionale…..qualora altri interventi non abbiano prodotto risultati utili, la scuola secondaria di primo grado….può stipulare apposite convenzioni ….(con) gli enti di formazione professionale… allo scopo di superare le difficoltà di proseguimento del loro percorso formativo.” “…Il compimento del 15 anno di età va inteso entro il 31 dicembre 2010.

Questo è il secondo punto politico. E’ la formazione professionale l’ultima spiaggia ? Con tale prospettiva si pensa di fare un buon servizio al mondo del lavoro ? La scuola elimina e la formazione raccoglie. Cose che con tutta le ricerca e l’esperienza accumulata nel campo psico- pedagogico si pensava di non sentire più. Sarebbe interessante avere qualche altro indicatore oltre all’occupabilità per vedere se questa è l’unica soluzione possibile o se non si debbano mettere in atto energiche politiche in questo ambito, anche di carattere didattico e organizzativo; forse si risparmierebbe qualcosa, rispetto ad un obbligo formativo che non cosa certo poco. Come si vede non sembra utile intervenire sui due sistemi separatamente. Ben vengano le affermazioni riportate in precedenza dell’assessore regionale, ma bisogna fare presto. Se passa un altro anno con i “qualora” citati dall’intesa rischiamo gravi danni e per lungo tempo. Già altri segnali, circa gli apprendimenti, il retroterra sociale di questi allievi ci lanciano, non da ora, un preoccupante monito.

L’ultimo punto politico riguarda il raccordo tra la formazione superiore non accademica (IFTS e corsi post diploma), i poli tecnici di ricerca ed alta specializzazione tecnologica e la rete regionale degli istituti tecnici e professionali. Si tratta di coerenza tra gli indirizzi, nei rapporti tra enti di formazione e istituti scolastici, anche in prospettiva della costituzione degli ITS, di un’ottica di sistema, come si è detto, tra vocazioni territoriali, strutture produttive e supporti formativi. In Emilia Romagna non si è mai applicata la strategia dei poli IFTS, come in altre regioni, rinunciando alla coincidenza tra i “distretti” produttivi, all’insegna di una rete regionale di alta formazione, oltre l’università, in diretto rapporto con le imprese e con i territori. Oggi chi aveva i predetti poli è in corsa per gli ITS e lo stesso ministero si orienta in tal senso per l’istituzione di questi ultimi; la nostra regione che ambiva ad una rete più organica e quindi di maggiore qualità si trova (non da oggi) con una pletora di iniziative post – diploma molto più legati all’autoreferenzialità di enti e territori piuttosto che ad un efficace governo di rete regionale. Il polo o è rete, come ebbero a dire in passato diversi documenti regionali, o non è, a giudicare dall’ultimo piano di corsi approvati. Temi che si ripetono, nel tempo e nello spazio, senza un organico collegamento con quelle indicazioni che volevano fare di questi interventi un autentico valore aggiunto per il nostro appunto auspicato sistema formativo e produttivo; bene dunque l’idea di una nuova legge sull’alta formazione, ma intanto che se ne parla, le poche risorse si disperdono. Si ha l’impressione che tutti cerchino finanziamenti, forse è anche ragionevole, ma ognuno per se: e il governo regionale dove indirizza gli obiettivi generali ?

La conclusione è che nell’istruzione superiore anziché concentrare le risorse nei poli, per incrementare la qualità dell’intervento, si è preferito spalmare i corsi tra enti e territori, mentre nell’obbligo formativo si è concentrata l’offerta formativa in un ristretto canale sempre più isolato.

C’è qualcosa da rivedere e non solo a livello legislativo.

Perché ad esempio, come prevede la legge nazionale, non si offre la titolarità degli IFTS agli istituti tecnici e professionali ? E’ la base di ripartenza per i poli e per gli ITS. Essi non sono forse le nuova strada per costruire il percorso superiore non accademico, di cui si è sempre sostenuto la validità ? Senza contare poi che rimane ancora del tutto inesplorato il quarto anno del canale della formazione, in cui allievi di altre regioni stanno già facendo gli esami per il diploma professionale e dove sono già state costruite intese per il rientro nell’istruzione e la partecipazione all’esame di stato quinquennale, per il successivo eventuale accesso all’università.

da http://www.nelletuemani.org