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"Il lavoro umiliato e la solitudine di chi viene licenziato", di Piero Fassino

Aveva 51 anni. Sei mesi fa era stato licenziato. L’altro ieri, sconvolto dall’angoscia di una vita senza lavoro, è tornato nella sua azienda, ha ucciso due dirigenti e si è suicidato. Tre vite stroncate brutalmente, tre famiglie travolte dalla sofferenza e dal dolore.
Si sbaglierebbe davvero ad archiviarlo come uno dei tanti eventi luttuosi da affidare alle cronache giornalistiche. Sì, perché questo episodio tragico non è che l’ultimo di altri drammi che nei mesi scorsi hanno scandito l’acutezza della crisi. Piccoli artigiani che, non sopportando di vedere andare in fumo i sacrifici di una vita, decidono di morire con la loro azienda. Operai di mezza età, che disperando di trovare un altro lavoro, la fanno finita. Impiegati, che umiliati nella loro professionalità, sono risucchiati nella follia del gesto estremo. E sempre più spesso operai che si barricano sul tetto della loro fabbrica o lavoratori che si incatenano ai cancelli di un’aziendamin chiusura.
Abbiamo conosciuto nei decenni altre crisi con riduzione di lavoro, aumento della disoccupazione, crescita della cassa integrazione. E, tuttavia, gesti estremi erano una rarissima eccezione. Se oggi invece sono così frequenti bisogna chiedersi perché. Viviamo intanto un tempo di precarietà, che ha ridotto – e spesso eliminato – quelle certezze che accompagnavano il lavoro. Il lavoro non è più uno per tutta la vita. I contratti – soprattutto per i giovani – sono sempre di più a tempo determinato. Passare da un lavoro all’altro è comunque difficile, tanto più quando la crisi riduce l’offerta di impiego, la disoccupazione è al dieci per cento e la inoccupazione giovanile tocca il livello record del trenta per cento Cassa integrazione e mobilità – in particolare per chi è avanti negli anni
– diventano sempre più spesso l’anticamera di una penosa vita senza lavoro e senza opportunità.
Una condizione che è resa ancora più pesante da un sentimento di solitudine e di isolamento. Essere licenziati o andare in cassa integrazione era fonte di inquietudine anche nel passato. Ma chi si veniva a trovare in quella condizione sapeva che c’erano sindacati, partiti, istituzioni che non lo avrebbero lasciato solo e, alla fine, a una qualche soluzione si sarebbe giunti. Oggi, invece, sono tanti a vivere un sentimento di abbandono.
E i gesti forti – anche quelli più estremi – sono un grido rabbioso di dolore, un’invocazione disperata di aiuto, la denuncia drammatica di una solitudine devastante. Né minori inquietudini e paure segnano la vita di quanti, lavorando in proprio e investendo ogni loro avere, non vedono riconosciuta e sostenuta la fatica propria e della propria famiglia.
Ma c’è di più: quei sentimenti non sono figli soltanto di una crisi che mette in causa certezze di vita, sicurezze familiari, futuro dei figli. Suscita umiliazione e angoscia anche
la percezione che saper fare un lavoro, avere una professionalità, essere fedeli e leali con la propria azienda, investire sulle proprie capacità non siano più valori importanti. Se poi il lavoro è manuale lo svilimento è anche maggiore.
Mi ha colpito molto nelle scorse settimane vedere uno spot televisivo di un nuovo modello di furgone dove apparivano operai in tuta, sporchi di olio e di fuliggine, sudati e affaticati. Un’immagine vera e semplice,ma che i nostri teleschermi non trasmettono più da anni.
Nelle fiction, nelle pubblicità, nelle immagini con cui ogni giornom rappresentiamo il nostro vivere quotidiano, gli operai non ci sono mai. Il messaggio è brutale: quel lavoro non conta, è marginale, appartiene al passato, è sporco e brutto. E come non pensare che chi di quel lavoro vive non si senta solo, abbandonato, umiliato? E come non capire che l’angoscia e la paura della solitudine possano condurre anche a gesti estremi?
Non si tratta di avere la nostalgia del passato, ma di essere consapevoli che svilire il lavoro rende più ingiusta, più dura, più cinica una società. Sì, perché il lavoro non è soltanto il mezzo con cui un individuo si procaccia il reddito necessario a vivere. Nel lavoro si esprime la creatività umana, l’intelligenza di una persona, i tratti della propria identità. Il lavoro non è solo fatica bruta, è anche competenza, merito, passione, dedizione.
E, dunque, anche quest’ultima tragedia una cosa semplice dovrebbe insegnarla:una società che svilisce ed umilia il lavoro non è civile, né umana, né moderna. La modernità significa anche un lavoro professionalmente riconosciuto, dignitosamente remunerato, legislativamente protetto, contrattualmente tutelato. E soprattutto rispettato.

L’Unità 25.07.10