economia, lavoro

"Purchè non sia un tavolino", di Mario Deaglio

I cosiddetti «tavoli» ai quali i sindacati, gli imprenditori e i rappresentanti del governo si incontrano e si confrontano sono una buona cosa in quanto l’alternativa è spesso uno sciopero «al buio», ossia senza che una parte abbia una chiara percezione delle posizioni e dei problemi delle altre. Il «tavolo» che si terrà mercoledì a Torino sul futuro degli stabilimenti italiani della Fiat rischia però di trasformarsi in un «tavolino», ossia di dare ai problemi sul tappeto un’interpretazione riduttiva e specifica, tesa soltanto a stabilire minuziosamente impegni reciproci sulla produzione di singoli impianti e singoli modelli in un arco di tempo necessariamente breve e in condizioni molto incerte, data la congiuntura europea e mondiale. Se così fosse, l’accordo raggiunto terrebbe fino alla prossima situazione di difficoltà, dopo di che si ricomincerebbe da capo con un altro «tavolino». Tra un «tavolino» e l’altro, la posizione competitiva dell’Italia continuerebbe a peggiorare.

E’ stato così nel corso degli ultimi vent’anni. Il «tavolo» di mercoledì sarà un successo se, pur non rinunciando ad affrontare i problemi contingenti, porrà le basi per trattare, nell’ottica dell’economia globale, il problema della sostenibilità del modello sociale europeo – e specificamente della sua variante italiana – caratterizzato da forti componenti non monetarie della retribuzione. Fino a non molti anni fa si pensava che questo modello si sarebbe imposto al mondo: le norme sul lavoro minorile, sulla sicurezza sul lavoro e del posto di lavoro, il graduale e continuo aumento di salari e del tempo libero in cui spendere quei salari avrebbero dimostrato la superiorità di una civiltà europea attenta all’individuo e ai suoi legami con la società.

Come ben sappiamo, le cose non sono andate così. I Paesi emergenti stanno muovendosi verso salari più elevati e forme rudimentali di sicurezza sociale non copiate dall’Europa, ma la produttività del lavoro vi cresce a velocità ben superiore e pertanto le loro esportazioni conquistano sempre nuovi mercati. I lavoratori sono sicuramente sottopagati ma i loro redditi sono fortemente aumentati e possono ragionevolmente sperare che i figli continuino nel miglioramento. I nostri obiettivi sono invece troppo spesso quelli di un decoroso accompagnamento alla pensione di lavoratori anziani senza dare spazio ai giovani mentre con redditi stagnanti il tempo libero rischia di trasformarsi in tempo vuoto. L’Europa, e l’Italia in particolare, più esposta di altri Paesi alla concorrenza diretta degli emergenti, si vede proporre (e forse domani imporre) un sistema in cui si deve lavorare di più e con mansioni più flessibili per retribuzioni pari a quelle di prima.

Le vie percorribili sono sostanzialmente due. La prima via è quella di una sostanziale riscrittura del modello economico-sociale europeo con l’attenuazione della difesa del «posto» di lavoro, non più garantibile nell’attuale contesto mondiale, e l’aumento della difesa del «lavoro», ossia di un’attività mutevole e flessibile: si deve andare verso una garanzia della continuità delle occasioni di lavoro, magari con un salario di cittadinanza, nell’ottica di ottenere e mantenere la produttività necessaria per stare sul mercato globale.

Modelli di questo tipo hanno consentito a diverse economie dell’Europa settentrionale di reggere assai bene all’urto dei Paesi emergenti e di riconvertirsi molto velocemente e con successo. Nessuna di queste esperienze è perfetta e tutte richiedono un supporto notevole di spesa pubblica; pertanto il meccanismo dovrebbe essere introdotto gradualmente e in via sperimentale, a cominciare dai giovani delle aree minacciate dalla crisi industriale. Torino, dove il numero di coloro che compiono diciotto anni è sensibilmente inferiore a coloro che ne compiono sessanta, sarebbe un luogo ideale per cercare di trasformare in «lavoro» – e quindi in prospettive di vita – mediante la garanzia di una continuità di fondo la miriade di «lavoretti» con cui i giovani sopravvivono.

La seconda via è quella del protezionismo moderno, fondato su barriere non tariffarie in grado di impedire l’ingresso delle merci che competono con quelle nazionali. Il protezionismo salva i posti di lavoro minacciati ma il suo costo è molto elevato in quanto riduce o toglie dai mercati numerosi beni stranieri a basso prezzo. Le varie «clausole di salvaguardia» degli accordi commerciali internazionali consentono forme di protezione per un periodo limitato. Sono utili se, nel frattempo, il Paese o il gruppo di Paesi che cerca di proteggersi modifica qualcosa nel suo modello produttivo. Nel caso dell’Italia, a esempio, occorrerebbe semplificare davvero la politica, la burocrazia, la tassazione riducendone il costo – che è spesso un reddito per categorie professionali privilegiate assai più numerose che in altri Paesi – senza far ricadere il peso della ristrutturazione soltanto sui normali lavoratori dipendenti.

Perché il «tavolo» di Torino sia un successo, argomenti di questi tipo dovranno essere affrontati – accanto a quelli più specifici dell’occupazione dei singoli stabilimenti e dei modelli che saranno prodotti, situazione economica permettendo – per essere sviluppati in seguito. La speranza è che ci sia almeno un pizzico di novità, non il solito stanco rituale che ha scandito il nostro declino.

La Stampa 26.07.10