attualità, pari opportunità | diritti

"Il vero volto del conflitto afghano", di Federica Cantore

Un disastro. Questo, in una parola, il ritratto della guerra in Afghanistan emerso dai documenti segreti inviati da WikiLeaks – il portale internet fondato da Julian Assange dedicato alla pubblicazione di rapporti riservati, già autore di molti scoop – a New York Times, Guardian e Der Spiegel. 92mila documenti che tracciano uno scenario impietoso del conflitto afghano, la più importante fuga di notizie della storia militare americana. Dai documenti, che riguardano sei anni della guerra, emergono due questioni principali. La prima riguarda le centinaia di vittime civili morte per mano delle truppe americane e Nato di cui non si è mai saputo nulla, si tratta di «crimini di guerra» ha affermato lo stesso Assange; la seconda, di carattere politico, mette in luce la crescente influenza iraniana – e il sostegno di Teheran alle milizie talebane – nel paese, la corruzione del governo afgano e l’ambiguo ruolo dei servizi pachistani (l’Isi). Nei rapporti si legge poi di unità speciali incaricate di «catturare o uccidere» qualsiasi talebano senza processo, di droni Reaper telecomandati dal Nevada, e dell’escalation della campagna talebana con mine su strada (che ha causato la morte di almeno 2000 civili). Come ha scritto il New York Times, «i documenti spiegano con dovizia di particolari perché, dopo aver speso 300 miliardi di dollari in questa guerra, i talebani sono più forti ora che nel 2001».
La diffusione dei 92mila documenti per la Casa Bianca viola le leggi federali e oltre a richiare di danneggiare le forze armate statunitensi. «Possono mettere a rischio la vita degli americani, dei nostri alleati e minacciare la sicurezza nazionale» ha sottolineato il generale James Jones, consigliere alla sicurezza nazionale di Obama. L’amministrazione ha poi fatto notare che il rapporto interessa un arco di tempo (dicembre 2004 gennaio 2009), fermandosi a prima del varo della nuova strategia dell Casa Bianca e abbracciando, quindi, unicamente la presidenza Bush.
Il governo Karzai, invece, pur non chiamando in causa esplicitamente Islamabad, non ha perso tempo e ha immediatamente cavalcato il rapporto, sottolineando come i documenti giustifichino le posizioni “sospettose” di Kabul nei confronti dei vicini pachistani.
«Il terrorismo non si combatte nei villaggi afgani, ma colpendo i rifugi e le fonti ideologiche e finanziarie (dei talebani) al di là della frontiera», spiega un comunicato diffuso dalla presidenza.
Dai documenti, infatti, emerge chiaramente che «il Pakistan, ufficialmente alleato degli Stati Uniti, ha permesso ai suoi 007 di incontrare capi talebani per organizzare reti di lotta contro le truppe americane e per mettere appunto complotti con l’obiettivo di eliminare leader afghani». L’intelligence pachistana quindi «faceva quindi il doppio gioco lavorando al fianco di al Qaeda». «È dal 2006 che parliamo del ruolo dei servizi» pachistani, ha sottolineato Waheed Omar, portavoce di Hamid Karzai. L’ambasciatore pachistano negli Stati Uniti, Husain Haqqani, dal canto suo, si è limitato a definire «irresponsabile » la diffusione dei rapporti.
Ma la miccia, a questo punto, è accesa, e il caso WikiLeaks causerà altre esplosioni nei cieli dell’Afghanistan.

da Europa Quotidiano 27.07.10

******

Wikileaks pubblica i segreti Usa, “Una lezione per l’Italia, la stampa controlli il potere”, di Luigi Franco

“Il giornalismo è la spina dorsale della libertà dell’opinione pubblica”. Così Maurizio Viroli, docente di Teoria politica alla Princeton University, commenta lo scoop di Wikileaks: la pubblicazione di 75mila documenti segreti del Pentagono sulla guerra in Afghanistan. Stragi di civili, morti per fuoco amico, servizi segreti del Pakistan che fanno il doppio gioco e aiutano i Talebani: insomma, la prova del fallimento della missione americana. La Casa Bianca ha condannato con forza una fuga di notizie che “mette a rischio la vita di americani e alleati e minaccia la sicurezza nazionale”.

Ma a nessuno è sinora venuto in mente di mettere un bavaglio alla stampa. È così, professor Viroli?

Pur tra tante contraddizioni, negli Stati Uniti c’è la tendenza a rendere il potere sempre più visibile ai cittadini. In Italia succede l’opposto. E il potere politico, reso invisibile, diventa sempre più incontrollabile.

Il fondatore di Wikileaks, l’australiano Julian Assange, ha detto che è buon giornalismo puntare l’indice contro gli abusi di potere.

Se in un Paese la stampa non ha più il senso della propria missione, la vita democratica si incrina. È difficile parlare di libero consenso, se non c’è libero dissenso.

È il caso dell’Italia?

Esatto. Sui nostri media Berlusconi ha non solo un controllo diretto, ma anche indiretto: è in grado di evitare che pure i direttori delle testate non sue esercitino una critica severa su quello che accade. Cosa che invece la democrazia esige.

La vicenda di Wikileaks ricorda quella dei Pentagon Papers: nel 1971 il New York Times pubblicò documenti segreti che provavano le bugie dell’amministrazione americana sulla guerra in Vietnam. Fu una vittoria per la stampa libera.

Di fronte alle pressioni del governo, il direttore del giornale rispose: “Io metto in pagina ciò che ritengo necessario per l’opinione pubblica”. In Italia dovremmo prendere esempio da queste schiene dritte: sono una garanzia fondamentale di libertà.

Grazie ai Pentagon Papers, l’opinione pubblica americana si convinse che la guerra in Vietnam era ingiusta. Accadrà lo stesso per quella in Afghanistan?

Credo che gli americani continueranno a considerare la guerra in Afghanistan giusta. Ma si rafforzerà l’idea che è difficile vincerla. Molti esperti vicini all’amministrazione americana, del resto, già lo pensano.

Resta il fatto che all’opinione pubblica non è stata detta la verità sulla reale situazione in Afghanistan.

Obama ha basato la sua politica estera su due presupposti: andare via dall’Iraq e portare a termine l’operazione in Afghanistan. Le informazioni segrete diffuse oggi fanno emergere che questo obiettivo è difficile da raggiungere. Questo può avere spinto l’attuale amministrazione a non divulgare certi documenti. Ma le responsabilità più gravi sono dell’ex presidente George W. Bush: ha cercato in tutti i modi di giustificare la guerra totale al terrorismo, forzando i limiti costituzionali. Se quanto è stato pubblicato oggi proverà che qualcuno ha commesso degli errori, Obama dovrà punirlo con severità. Se no perderà consensi.

E sul piano della strategia militare?

È presto per dirlo. Ma sarà più difficile per Obama giustificare il rafforzamento della presenza militare nell’immediato, per poi lasciare l’Afghanistan.

da Il fatto Quotidiano 27.06.10

******

Il giornalismo che cambia la storia
condividi [facebook] twitter
LUCIA ANNUNZIATA
Una meditazione sulla guerra e una meditazione sul giornalismo.Eforse una preghiera sulla tomba di quella che fu la nostra sensibilità di cittadini. Questo dobbiamo alle rivelazioni emerse ieri sulla guerra in Afghanistan, il cui impatto si profila già come capace di ridefinire il corso della storia attuale degli Stati Uniti, e dunque, in parte,anche della nostra.

Novantaduemila rapporti classificati del Pentagono che coprono sei anni di guerra in Afghanistan, dal gennaio 2004 al dicembre 2009, dunque sia durante l’amministrazione Bush che durante quella Obama, sono stati resi noti domenica da tre dei maggiori quotidiani internazionali, l’americano New York Times, l’ingleseTheGuardian e il tedesco Der Spiegel, che hanno lavorato su archivi segreti della guerra resi pubblici da Wikileaks, il portale Internet creato per diffondere documenti riservati. Il racconto che ne esce è quello di un conflitto combattuto con approssimazione, cattiva coscienza e, soprattutto, schermato da un altomuro di bugie di Stato.

Si tratta della maggiore fuga di notizie militari mai avvenuta. E, come si diceva, si presta a una lettura a tanti livelli da muovere interrogativi che vanno dalla capacità e trasparenza delle istituzioni mondiali alle nostre coscienze individuali, infilzando, nel passaggio, la credibilità dell’intera macchina informativa.

Cominciamo dal conflitto afghano. Dalle migliaia di pagine di racconti in prima persona, rapporti ufficiali e testimonianze – molte delle quali, siamo sicuri, saranno negate dalla amministrazione americana, come ha già iniziato a fare – prendono forma tre indiscusse verità. La prima, la più dolorosa, riguarda i numerosi morti civili di cui non è mai stata data notizia. La seconda, la più dannosa per Washington, è la confusione e la pochezza decisionale nella conduzione della guerra. Si apprende ad esempio che gli americani nell’epoca Obama hanno aumentato l’uso di droni, aerei senza pilota, nel tentativo di risparmiare il pericolo per i propri uomini, in realtà mettendo in moto un meccanismo più pericoloso di prima per i civili e per gli stessi militari, costretti spesso a pericolose operazioni di recupero degli aerei caduti, per evitare che i taleban ne catturino la tecnologia. Ma il maggior fallimento militare riguarda la natura stessa dell’alleanza intorno a cui si incardina il conflitto, quella fra forze Nato e Pakistan: i documenti rivelano infatti che sono gli stessi agenti segreti del Pakistan (Paese con l’atomica) a aiutare i taleban, in un doppio gioco, un vero e proprio tradimento consumato con continuità e convinzione da parte di un Paese che nelle stesse parole del Dipartimento di Stato questa guerra dovrebbe difendere da una presa del potere dei taleban. La considerazione finale che si trae dai documenti è che «dopo aver speso 300 miliardi di dollari in Afghanistan, gli studenti coranici sono più forti ora di quanto non lo fossero nel 2001». Ma, per dirla con l’editorialista Leslie Gelb, «non sono tutte cose che conoscevamo già?». In fondo i giornalisti in questi anni non sono stati esattamente con le mani in mano. Un’idea di come stessero le cose ce l’eravamo già fatta.

Le rivelazioni che stiamo leggendo in effetti hanno valore, più ancora che per quello che ci dicono, per tutto il resto che implicano. La differenza fatta da queste carte è proprio nella loro resa pubblica: come già accaduto in passato, la differenza non è fatta dalla notizia ma dalla volontà di farla apprendere. Non è la prima volta, infatti, che questa dinamica tra informazione e conflitti si materializza nella storia recente, e anche oggi, come nelle volte precedenti, è frutto di una lacerazione nella tela del consenso ancor prima che in quella della verità.

L’esempio del Vietnam è sempre quello da cui ripartire. In quel conflitto il giornalismo riuscì a intercettare e incanalare la rottura di consenso intorno a una guerra che pure era definitoria della identità stessa degli Usa. Sono nati in quell’epoca paradigmi giornalistici che hanno ispirato generazioni, dal lavoro di Peter Arnett, a quello di Philip Caputo, David Halberstam, a Neil Sheehan, Tom Wolfe e Sydney Schanberg. Anche allora, alla fine la notizia capovolse il consenso. Pensiamo alla storia della strage di My Lai a firma di Seymour Hersh, e alle parole con cui nel 1968 Walter Cronkite concluse un reportage della Cbs report: «Appare sempre più chiaro a questo giornalista che l’unica via razionale per uscirne è negoziare, non come vincitori, ma come uomini d’onore». Leggenda narra che furono quelle frasi a far dire al presidente Johnson «Se ho perso Cronkite, ho perso l’opinione pubblica americana». Anni dopo qualcosa del genere è accaduto in Usa sul fronte interno, con il caso del Watergate. E, più di recente ancora, è accaduto, nel 2004, con un reportage di 60 Minutes sulle torture agli iracheni da parte di soldati Usa nella prigione di Abu Ghraib.

In ognuno di questi casi la pubblicazione di una notizia ha segnalato la fine di un consenso, prima ancora che di una verità ufficiale. Così accade oggi, per l’amministrazione Obama.Ma non solo.

C’è qualcosa in più da segnalare in questa vicenda. Qualcosa che ci parla anche di giornalismo e cittadini. Da anni non vedevamo i media impegnati in operazioni come quella i cui risultati stiamo leggendo. Le sue dimensioni e complessità riportano a galla un modo di lavorare che appare da lungo tempo defunto nelle redazioni di tutto il mondo. Con in più un intreccio fra new media e grande comunicazione tradizionale, che seppellisce molte sciocchezze dette sulla fine del giornalismo nell’epoca di Internet. I new media, per la loro stessa facilità di uso, flessibilità e, non ultima, economicità, si rivelano in questa inchiesta il motore di un potenziale rinnovamento dello spirito stesso del giornalismo sempre più appannato negli intrighi commerciali e proprietari del nostro attuale sistema editoriale.

Operando così lo squarcio di un miracolo: i 92 mila documenti, peraltro consultabili da chi volesse, sono un trillo di sveglia anche per noi stessi, i lettori. Noi stessi forbiti interpreti di troppi cinismi, su tante guerre, vicine e lontane, signori del chissenefrega, contenti e accontentati da una informazione senza verifiche e senza fonti.

La Stampa 27.06.10