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"Tempeste imperfette", di Riccardo Barenghi

C’è quella scritta da Shakespeare ma c’è anche quella in un bicchier d’acqua, poi ci sono quelle vere, che causano danni, morti e feriti, altrimenti dette cicloni, uragani, tornado.
Infine esiste quella mediatica, usata e abusata dai nostri politici. In particolare, va detto, da quelli del centrodestra, forse perché hanno la fantasia più fervida o forse perché si trovano più spesso degli altri a fronteggiare guai giudiziari.

La tempesta mediatica è così diventata un’espressione di moda. Se un politico, un manager, un amministratore pubblico legge sui giornali che è stato indagato, se si ritrova le sue telefonate (politicamente imbarazzanti per non dire di peggio) nero su bianco, ecco che la sua prima reazione è buttare la palla in corner, la colpa è dei giornali. L’ha fatto Scajola pochi secondi prima di dimettersi da ministro, l’ha fatto Cosentino, prima e dopo aver lasciato l’incarico di sottosegretario, lo ha fatto ieri Verdini contestualmente alle sue dimissioni dalla sua banca e subito prima di presentarsi dai magistrati, l’aveva fatto il governatore Marrazzo: «E’ una bufala». Ma tanti altri, in questi anni di seconda repubblica, hanno dato l’esempio, a destra e a sinistra. A destra il campione delle tempeste, che spesso diventano complotti e che non sono solo mediatiche ma anche giudiziarie e quasi sempre comuniste, è ovviamente Berlusconi. Gli altri l’hanno seguito, imitato, a volte scimmiottato. A sinistra un’accusa così esplicita non si è mai sentita ma non sono mancate le polemiche contro i giornali, le querele, le telefonate furiose dei vari D’Alema (il quale ha ripetutamente ostentato il suo disprezzo per l’informazione scritta), Fassino, Prodi, Di Pietro, Veltroni, nel caso qualcosa sul loro conto (o conti) fosse stato pubblicato.

Ora, nessuno qui pensa che noi giornalisti non abbiamo commesso errori, esagerazioni, a volte prendendo anche topiche colossali, sbattendo qualche mostro in prima pagina per poi scoprire che mostro non era. E questo vale anche per i politici ma soprattutto per i poveri disgraziati, magari accusati di reati comuni e poi risultati innocenti. Quelli insomma che non hanno le barche o almeno le scialuppe adatte per salvarsi dalle tempeste.

Gli altri invece, gli uomini o le donne che esercitano in qualche forma il potere, hanno tutte le armi in mano per reagire, possono scrivere ai giornali, concedere interviste, dichiarare pubblicamente la loro innocenza. E infatti usano queste armi con una certa frequenza. Ma soprattutto possono, anzi dovrebbero, dimostrare la loro estraneità nelle sedi proprie, ossia quelle giudiziarie. Basti pensare a come si è difeso Andreotti dalle accuse di mafia.

La cosiddetta tempesta mediatica è insomma l’effetto di un problema, non la causa, altrimenti detta questione morale. Un effetto spettacolare, non c’è dubbio, che spesso amplifica la causa ma che non potrà mai sostituirsi ad essa. Dunque c’è poco da evocare tempeste, complotti, polveroni e montature, che così facendo si rischia solo di alimentare il sospetto. Altrimenti perché un ministro, un sottosegretario, un coordinatore-banchiere, un governatore (vedi Marrazzo), o un presidente degli Stati uniti (vedi Nixon) avrebbero dovuto dimettersi se si fosse trattato solo di tempeste mediatiche? Già, perché?

La Stampa 27.06.10