economia, lavoro

"La rudezza di Marchionne nasce da un disagio: non vedere riconosciuti i suoi sforzi per dare un futuro solido al gruppo. Ma, vedrete, non lascerà l'Italia"

“Onorevole Fassino, che effetto le fa la Fiat formato Marchionne?”. “Sono cambiate molte cose, ma per me valgono ancora le regole di Pace”. “Cioè?”. “Da ragazzo, quando ho iniziato a occuparmi di Fiat, sono stato educato da alcuni capi storici del sindacalismo torinese. Tra cui Aventino Pace, un uomo straordinario scomparso troppo presto. Da lui ho imparato due lezioni: primo, se c’è un problema e non lo risolvi, lo farà per te il padrone. Secondo, sii duro e intransigente nella trattativa, ma ricordati che arriva il momento in cui l’accordo va fatto”.

Parla così Piero Fassino, torinese, segretario sotto i trent’anni dei comunisti torinesi negli anni Settanta, quando il Pci raccoglieva il 40 per cento dei voti sotto la Mole. E molti di più, ovviamente, tra le tute blu di Mirafiori, punta di diamante di quella Fiat che, dice lui, “è un pezzo della mia vita”.

Un pezzo che rischia di scomparire per l’intransigenza di Marchionne. O no?

Francamente non lo voglio credere. E non lo credo. Anche perché sono convinto che sia Marchionne che ia famigiia Agnelli siano perfettamente convinti che la Fiat, senza Torino e senza l’Italia, sarebbe un’altra cosa.

Eppure Marchionne sembra voler tirare avanti senza Confindustria.

In questo caso sarebbero più deboli entrambi. Lo considererei un errore, così come l’idea di disdettare i contratti sottoscritti. Le relazioni industriali non si cambiano con gli strappi. Anche perché una fabbrica si governa meglio se si tiene conto di chi ci lavora.

Il sindacato potrebbe essere tentato da una risposta forte. Potrebbe essere la strategia da suggerirgli?

Non è certo il mio ruolo quello di dare consigli. Ma è evidente che in una trattativa si è forti solo se si sanno esprimere tesi credibili. Mi auguro che il sindacato vada al confronto con la Fiat con una posizione che guardi in avanti e che tenga soprattutto conto delle esigenze di sviluppo dell’azienda.Senza dimenticare un passaggio fondamentale.

E cioè?

Se non ci fosse stato l’accordo con la Chryslet, il cui merito va a Marchiorme, oggi saremmo qui a parlare di ben altro, di una Fiat a rischio.

Che rapporti ha con Marchionne?

Ci incontrammo per la prima volta, con Gianluigi Gabetti e Sergio Chiamparino, a casa di un comune amico torinese, il notaio Antonio Marocco, quando prese in mano l’azienda e mi illustrò i suoi piani, lucido e determinato. Da allora lo seguo e lo frequento come altri manager industriali di quel livello.

Il suo rapporto con l’avvocato Agnelli era un’altra cosa?

Quando venni nominato segretario del Pci torinese, Agnelli mi volle conoscere Io sono il padrone della Fiat, mi disse, e lei il rappresentante dei miei operai. Fu un incontro molto intenso e sincero, il primo di una lunga relazione basata sulla reciproca stima. E sa cosa mi disse prima di salutarci? “Fassino, lei ha fama di essere un contrattualista. È un pregio o un difetto?”. E io risposi: per me è un complimento. “Lo credo anch’io” fu il suo saluto.

Altri tempi, onorevole. Ora vanno di moda i referendum. O gli ultimatum. Non crede che Marchionne potrebbe adottare metodi più soft, in linea con la nostra tradizione?

Io penso che la rudezza di Marchionne nasca da un certo disagio: la sensazione di non vedere sufficientemente riconosciuto il suo sforzo per cercare di dare un futuro solido e stabile alla Fiat anche in Italia, scommettendo sul futuro manifatturiero. Credo che si aspettasse atteggiamenti più coerenti da parte del sindacato ma anche, anzi soprattutto, da parte del governo. Non discuto le qualità di Sacconi, ma fa il ministro del Lavoro. È mancato, in un momento cruciale, un responsabile per la politica industriale O meglio, se ne dovrebbe occupare Berlusconi, che per non ha trovato il tempo per andare in Fiat. Obama, invece, in Chrysler ci va. E’ una differenza pesante

A proposito di Chiysler i neo-assunti dell’impianto modello di Jefferson North si sono dovuti accontentare di una paga oraria di 14 dollari, la metà dei «vecchi». E il prezzo che si deve pagare per un posto di lavoro?

Questo è l’aspetto più delicato, perché la competizione globale mette in discussione tanti elementi, dal fisco al costo del lavoro fino alla certezza di lavorare È chiaro che il sindacato deve tutelare i diritti dei lavoratori, ma non pu non tenere conto del contesto internazionale. Non si può dire: “Abbiamo sottoscritto un certo accordo vent’anni fa”, se nel frattempo è cambiato tutto. Lo so, ci si muove su un terreno fragile, anche sul piano emotivo. Perché quando è in discussione il posto di lavoro entrano in gioco il proprio destino, la famiglia, il futuro dei figli. Ma proprio perché so quanto vale tutto questo, non dimentico la lezione di Pace: la vera missione politica di chi vuole rappresentare i lavoratori sta nella capacità di misurarsi con i loro problemi. Anche perché gli operai in questi anni sono diventati «invisibili». Non c’è fiction, pubblicità, immagine televisiva in cui si veda un operaio. Mi ha colpito uno spot, credo della Mercedes, in cui si vedono operai al lavoro, imbrattati di grasso e di fuliggine. Finalmente, mi sono detto.

Non è che la sinistra abbia fitto molto, in questi anni, perché le tute blu non finissero in un cono d’ombra.

Non siamo i soli responsabili. Certo, viviamo in una certa situazione culturale e il senso comune ci ha influenzati. Ora bisogna raddrizzare il tiro: no, non per nostalgia del fordismo. Ma ci deve essere un confine tra precarietà e flessibilità.

Resta il fitto che Marchionne, agli occhi di certa sinistra, non è pi il manager illuminato in maglioncino bensì la riedizione di Valletta. Che ne pensa?

Francamente non credo che queste schematizzazioni abbiano la minima utilità. Io penso che Marchionne abbia avuto finora un grande pregio, quello di affrontare di petto i problemi, invece di nasconderli. E l’accordo Fiat-Chrysler è un atto coraggioso e lungimirante. Ma ora deve rendersi conto che ha anche il dovere di ascoltare.

Non prova una certa nostalgia per le relazioni tra politica, sindacato e industria ai tempi dell’Avvocato?

Non si tratta di provare nostalgia, anche perché i tempi sono profondamente cambiati: oggi viviamo nel mercato globale. Un tempo ciascuno di noi era padrone in casa propria: i mercati rispondevano a una logica domestica e la politica, ma anche le imprese e i sindacati, erano senz’altro più forti. Ora dobbiamo adattarci a una realtà ben pi complessa e difficile.

Una realtà dura, più che altro. Se Pomigliano risponde in un certo modo, la Zero trasloca in Serbia. E non resta che abbassare la testa…

Assolutamente no. È importante verificare, come io credo, che Marchionne sia ancora impegnato per davvero a garantire un futuro per Mirafioti, Torino e per tutta l’Italia, Pomigliano compresa. D’altronde, se è evidente che la Fiat, per competere a livello globale, deve stare su molti mercati, non deve dimenticare che nel mondo c’è anche l’Italia. Ma, a proposito della Serbia, Pomigliano è stata citata a sproposito.

Davvero?

Il progetto di Kragujevac non è mica maturato in una settimana o in un mese Io sono stato a Belgrado nell’inverno scorso e di quel progetto me ne hanno parlato tutti, dall’ambasciatore italiano fino ai nostri imprenditori che operano sul posto, estremamente interessati alle prospettive per le nostre aziende L’investimento in Serbia non è un colpo di testa estivo, insomma, ben una mossa strategica.

Vero, ma ad aprile la Zero era destinata a Mirafiori.

La Zero non è un singolo modello, ma una piattafonna su cui possono essere sviluppati vari modelli. Non spetta alla politica dire quali auto costruiree dove Sono altre le cose che dovrebbe fure un governo, in materia di regole e di sostegno all’innovazione e alla ricerca. È quello che chiede Marchionne. E non solo lui.

Dica la verità: non teme che Fabbrica Italia, cioè il progetto lanciato ad aprile, sia ormai finito in un cassetto?

No, francamente non lo credo e non me lo auguro. Credo, al contrario, che ci sia margine per negoziare con il sindacato e con il governo soluzioni che siano coerenti con lo spirito del progetto di Fabbrica Italia.

Riesce a immaginarsi Torino senza la Fiat?

Non riesco a immaginarmi una Torino che non abbia la Fiat Anche se il vero shock per Torino ci fu negli anni Ottanta, quando la Fiat, che aveva solo e sempre assunto, cominci a licenziare. Da allora la città, grazie anche a due ottimi sindaci, Valentino Castellani e Chiamparino, ha cambiato pelle Oltre la Fiat, qui c’è un indotto verticalizzato che serve tutte le case produttrici, qui ci sono centri di ricerca anche di produttori stranieri, qui c’è un Politecnico di eccellenza, c’è un terziario avanzato. Con Intesa Sanpaolo e Unicredit Torino è diventata anche piazza finanziaria forte È perfino meta turistica. Ma anche in una città così cambiata la Fiat ci vuole.

E gli Agnelli senza Torino?

Non sarebbero più gli stessi, lo sanno loro. E lo sa anche Marchionne.

Da Panorama di Ugo Bertone