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"Il nuovo pudore che la politica non sa capire", di Irene Tinagli

Il caldo si sa, dà un po’ alla testa, ma non può essere solo il caldo la causa dell’ondata di denunce, insulti e aggressioni rivolte a persone che, a detta dei denuncianti, «offendono» il pudore e la sensibilità della gente. Ma chi sono questi svergognati e quali sono i vituperati atti osceni oggetto del contendere? Sono coppie dello stesso sesso che si tengono per mano e che si scambiano un bacio in pubblico.

E che per questo vengono denigrate, umiliate e in alcuni casi picchiate (come pochi giorni fa a Pesaro). Sono donne che prendono il sole in topless, come nel caso di una giovane denunciata sulla spiaggia di Anzio perché «turbava» i figli della vicina di ombrellone. Sono docenti di educazione sessuale denunciati perché spiegano il sesso a ragazzi già adolescenti chiamando le cose col proprio nome anziché ricorrere alla metafore delle api, come è successo qualche mese fa a Treviso. Sono persino mamme che allattano i propri figli in pubblico. Potrebbero sembrare casi sporadici e come tali ignorati senza troppi allarmismi.

Ma è un fenomeno in corso già da alcuni anni su cui varrebbe la pena riflettere. Anche l’estate scorsa sono state numerose le aggressioni ai gay che camminavano per mano, considerati «vergognosi» e oltraggiosi, così come si sono avuti episodi di mamme alle quali è stato impedito di allattare in pubblico, come una mamma allontanata da un ristorante di Madonna di Campiglio, o un’altra redarguita dal proprietario di uno stabilimento balneare della riviera romagnola perché avrebbe dovuto allattare chiusa in cabina. Questi comportamenti non possono essere attribuiti alla tradizione cattolica o a qualche fattore culturale immutato e immutabile del nostro Paese, perché venti anni fa di donne in topless al mare se ne vedevano a decine, e a nessuno veniva in mente di gridare allo scandalo e chiamare la polizia. Magari qualcuno poteva storcere il naso e pensare «non ci sono più i bravi giovani di una volta», ma c’era la consapevolezza di una società che cambiava, di nuove regole di convivenza civile alle quali occorreva adeguarsi. E soprattutto cominciava a farsi strada, allora, un concetto di libertà e di diritti civili e individuali che oggi a quanto pare sta diventando sempre più condizionato, limitato non tanto dal rispetto della legge, come dovrebbe essere, ma dalle sensibilità personali. Il limite della libertà di un individuo oggi non sembra essere più il rispetto della legge e della libertà degli altri, ma della loro sensibilità, del loro concetto di buono e cattivo, di ciò che a loro piace o dà fastidio. E questa è una deriva molto insidiosa.

Ma come siamo arrivati a questa sensibilità pubblica così esasperata, che finisce talvolta per sfociare in atti di intolleranza e aggressività? Siamo arrivati fin qui non perché la gente sia diventata all’improvviso più cattiva o più bigotta, ma perché è stata lasciata sempre più sola ad affrontare cambiamenti sociali importanti, condizioni di convivenza mutevoli, bisogni e valori emergenti. Siamo arrivati fin qui perché la politica ha perso lungimiranza e coraggio ed è sempre più latitante sui temi che riguardano la crescita e l’evoluzione della nostra società, che riguardano la vita, i sentimenti, le idee, e i valori dei cittadini. Riesce magari a varare una manovra o a introdurre od eliminare una nuova tassa, ma si dimentica che la crescita di un Paese non è fatta solo di manovre correttive, tassi di interesse e conti pubblici.

La crescita di un Paese è anche e soprattutto una crescita culturale e sociale. Trent’anni fa la politica aveva saputo, assai più di oggi, occuparsi dei temi legati ai grandi cambiamenti sociali allora in atto: il divorzio, l’aborto, il ruolo delle donne nella società e la parità di diritti. I partiti non si tiravano indietro di fronte alle grandi battaglie civili, e si prendevano la briga innanzitutto di informare e formare opinione, di impegnarsi in un’attività divulgativa che bene o male aiutava i cittadini a capire i cambiamenti in atto e orientarsi. E poi si preoccupavano di agire e legiferare avendo a riferimento un’idea della società che pensavano di costruire nel lungo periodo. Oggi la politica sembra invece aver abdicato a questo ruolo. Le grandi questioni sociali e civili che hanno scosso le nostre comunità negli ultimi anni sono diventate «temi sensibili», rischiosi, difficili, e i politici hanno preferito evitarli oppure assecondare e cavalcare le paure e i dubbi ad essi collegati per cercare consenso facile, anziché aprire dibattiti seri ed informati.

Un atteggiamento miope e opportunista che ha saputo solo acuire disagi e attriti, facendoci trovare oggi di fronte ad un Paese paralizzato su questioni di grande rilevanza come quella del testamento biologico, dell’omofobia, o del ruolo e del rispetto delle donne, che continuano ancora oggi a subire violenze inaudite – come ci dimostra la cronaca, che quasi ogni giorno ci offre storie di mogli ed ex fidanzate perseguitate, picchiate e uccise. In questo vuoto politico ogni malumore, ogni frustrazione, ogni paura rischia di prendere la strada della chiusura, dell’intolleranza, della diffidenza, della protezione fai da te.

L’atteggiamento della politica verso tali questioni è tanto più miope se si pensa che certi temi comunque ritornano. E ritorneranno, infatti, quest’autunno, con il voto alla Camera della legge sul biotestamento e, probabilmente, con un nuovo voto sulla legge contro l’omofobia. Qualcuno si sta già chiedendo se questi voti spaccheranno la maggioranza e se e come contribuiranno a definire nuove geografie politiche. Speriamo però che, almeno questa volta, la politica sappia prendersi le proprie responsabilità e cogliere l’occasione per avviare un dibattito serio, informato, lungimirante e non demagogico su questi temi, che pensi al futuro della nostra società e non solo a contare voti e disegnare alleanze di carta.

La Stampa 12.08.10