cultura, memoria

"Senza libertà di pensiero l'uomo è perduto. Simone Weil appassionata del bene comune", di Elisabetta Rasy

Nella devozione di certi suoi adepti e adepte di oggi Simone Weil prende spesso una fisionomia caricaturale. Quella di una sorta di santa laica che, nascosta dietro monastiche vesti scure, praticava un impeccabile distacco dal mondo. Niente di più inesatto: per tutto l’arco della sua non lunga vita Simone aveva coltivato contatti col mondo costanti, intensi e avventurosi.

Certo, il suo aspetto era ascetico e colpiva quelli che la conoscevano da vicino, come il poeta Jean Tortel, che nel 1940 a Marsiglia, quando partecipava alle riunioni della rivista «Cahiers du Sud», la descrive così: «Una specie di uccello senza corpo, piegato su se stesso. In un’ampia mantellina nera che non lasciava mai, lunga fino ai polpacci; immobile, silenziosa, sedeva da sola – estranea e attenta, indagatrice e insieme lontana – all’estremità di un vecchio canapé sovraccarico di libri e riviste. Una presenza. Presente. Inconsueta».

Ma anche quel suo corpo consumato era frutto di un preciso impegno cui Simone era fedele fin dall’adolescenza: quello di rifiutare ogni privilegio. Di privilegi avrebbe potuto averne: i suoi genitori erano agiati, colti, di ampie vedute, affettuosi e generosi. Ma il privilegio faceva orrore a Simone, come uno di quei misfatti che spezzano la relazione tra lo spirito dell’uomo e quello dell’universo, e da quando a vent’anni cominciò il suo mestiere d’insegnante nelle cittadine della provincia francese scelse non solo di essere sempre dalla parte dei diseredati, ma anche di condividere le angustie le fatiche e i rischi della loro vita in una militanza che, se toccò ambiti diversi e contrari, dalla politica alle religione, non venne meno neppure sul letto di morte, nell’agosto del ’43 in Inghilterra dove era andata a lavorare, nella speranza di raggiungere la Resistenza francese, per il Commissariato per gli Interni e il Lavoro di “France Libre”, l’altra Francia in esilio capeggiata da Charles de Gaulle.

A leggere le opere, frammentarie quanto coerenti, quasi tutte pubblicate postume, che Simone Weil ha lasciato, oppure l’ampia biografia che la sua compagna di studi Simone Pétrement le ha dedicato, ci si chiede non che cosa potrebbe servire all’Italia di oggi ma che cosa non potrebbe, tanto i suoi scritti, la sua azione e la sua stessa figura disegnano sul fondo scuro del 900 le parole di una lezione indimenticabile. Per fare qualche esempio. Fin dal suo primo impiego si attira l’ostilità delle autorità perché partecipa alle manifestazioni dei disoccupati e collabora con i sindacati rivoluzionari, con la sicurezza di chi ha frequentato Marx e i classici del pensiero socialista dai banchi di scuola. Ma a 25 anni, nel 1934, quando decide di prendere congedo dall’insegnamento per passare un anno in fabbrica e conoscere dall’interno la vera vita operaia, è già in grado di tracciare un bilancio intellettuale della sua intensa attività di militante.
In quell’anno, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale è un’inesorabile critica non soltanto dell’azione politica ma anche dei fondamenti teorici del comunismo rivoluzionario e soprattutto del “fanatismo della Storia”, sul quale tornerà in altri scritti sempre con la convinzione che sia l’unica, temibile fede del tempo presente.
Simone non si lascia intimidire dalle opinioni prevalenti, del vertice o della base – in un congresso sindacale davanti agli insegnanti anticlericali fa un appassionato elogio delle suore così come non teme di polemizzare con Trotzkij. Né si lascia ammaliare dai circoli culturali che dettano legge. Invitata da Georges Bataille ad entrare nel Circolo comunista democratico (fondato nel ’30 come reazione al culto della personalità dei filosovietici) così argomentò il suo rifiuto: «Bataille mi ha scritto che desiderava che io aderissi al Cercle. Ma la rivoluzione è per lui il trionfo dell’irrazionale, per me del razionale; per lui la liberazione degli istinti e in particolare di quelli considerati di solito come patologici, per me una moralità superiore».

Detesta gli schieramenti. Benché il suo fisico sia infragilito dalle emicranie e dalle fatiche dell’anno in fabbrica, nel ’36 parte per la Spagna per partecipare alla guerra civile e sulle rive dell’Ebro si unisce alla colonna dell’anarchico Durruti. Non uccide e non è uccisa, ma vede e pensa. Quando nel 1938 legge I grandi cimiteri sotto la luna di Georges Bernanos, che aveva osservato, da monarchico conservatore, le violenze dei fascisti in Spagna e ne era inorridito, scrive allo scrittore della sua esperienza analoga nel campo avverso.

Simone era convinta insomma che se non c’è libertà di pensiero l’uomo è perduto. Ma era anche convinta di qualcosa di altrettanto importante, un vero monito da quei cupi anni in cui è vissuta al dopoguerra: che se non c’è pensiero non c’è libertà. Per questo smonta con mitezza e infrangibile precisione tutte le mitologie che il 900 veniva assemblando dalle idee ereditate dall’800, trasformandole in pesanti macigni ideologici: dal mito della rivoluzione a quello del progresso a tutti i costi (l’unico vero progresso è per lei «un progresso nell’ordine dei valori umani»), dal mito della tecnica a quello del relativismo culturale e morale, dal mito dell’avanguardia a quello dell’onnipotenza scientifica. E smaschera – per questo sarà impopolare nell’intellighenzia postbellica – una società in cui la secolarizzazione e la perdita della fede non comportavano un aumento di lucidità, ma al contrario sempre nuove superstizioni e divoranti idolatrie e un terribile devastante naufragio dello “spirito di verità”.

Tutto, dunque, nell’impianto del suo pensiero, così antiaccademico e antiidelogico, così genialemente etico può essere un ricostituente per la variamente debilitata Italia del nuovo secolo. Ma c’è qualcosa che sembra diretto esplicitamente al nostro smarrito oggi, su due materie scottanti: il senso del dovere e l’amor di patria. In Italia si è ormai radicata una “cultura dei diritti” sbandierata dai piani alti e da quelli bassi, e per ogni categoria e ambito della vita comune o privata. Non altrettanto, nella nostra nazione insidiata da un antico demone “uncivic”, si può dire di una “cultura dei doveri”, in una sordità che non conosce distinzioni di classe o di casta.

L’appello ai diritti appare nobile e progressista, l’appello ai doveri retorico e antiquato. Su questo complicato tema esiste una riflessione che Simone Weil scrisse negli ultimi mesi londinesi, forse considerandola una sorta di testamento. Si intitolerà, postumo nel ’49, L’enracinement, cioè il radicamento, ed è tradotto in italiano con il più poetico e fuorviante La prima radice. L’incipit del libro è già una dichiarazione di guerra: «La nozione di obbligo sovrasta quella di diritto, che le è relativa e subordinata». Per poi precisare: «Un uomo, che fosse solo nell’universo, non avrebbe nessun diritto, ma avrebbe degli obblighi».
Gli obblighi, cioè i doveri che precedono i diritti, nascono dalle necessità degli uomini, quelle palesi del corpo e quelle non meno importanti dell’anima, che attengono al «destino eterno dell’essere umano». A volte sembrano coppie di opposti, ma il loro equilibrio serve a proteggere da arbitrii e semplificazioni faziose. Enumerandoli, Weil li commenta lungamente, ma anche il loro nudo elenco ci può fornire un’utile base di riflessione: ordine, libertà, ubbidienza, responsabilità, uguaglianza, gerarchia, onore, punizione, libertà di opinione, sicurezza, rischio, proprietà privata, proprietà collettiva, verità. Il più importante è l’ultimo: la verità. «Il bisogno di verità è il più sacro di tutti». Un ottimo slogan per l’Italia contemporanea, senza distinzioni di parte.

Solo assumendosi i propri doveri prima d’inalberare i propri diritti, l’uomo potrà sfuggire al terribile sradicamento, anche etico, che corrode la modernità. È per questa via che a Simone Weil riesce un’impresa difficile, quella di dare un nuovo senso alla parola patriottismo, screditata da fascismo, nazismo e nazionalismo staliniano. La patria, scrive, può semplicemente essere definita un «dato ambiente vitale», evitando le contraddizioni e le menzogne che corrodono il patriottismo: «Quest’ambiente esiste, e così com’è deve essere difeso come un tesoro, per il bene che ha in sé».

È necessario che la patria sia degna, sia nobile per amarla? No, risponde Simone, al contrario: può esserci un patriottismo che nasce dal più puro dei sentimenti, la compassione. Anche e soprattutto un paese in crisi, materiale e morale, com’è l’Italia contemporanea, ha dunque bisogno di amor di patria. Non eroismo, sogni di gloria, vanterie d’orgoglio, ma un amor di patria purgato di retorica: umano, terrestre, quotidiano. Che, naturalmente, solo un diffuso senso del dovere e lo splendore della verità rendono possibile.

Il Sol 24 Ore 15.08.10