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"Il diktat di Marchionne", di Gad Lerner

I delegati della Fiom Cgil “confinati” nella saletta sindacale di Melfi, con proibizione di fare ritorno al loro posto di lavoro, nonostante il reintegro disposto dalla magistratura, evocano ricordi lontani.
E’ passato più di mezzo secolo, infatti, dagli “anni duri alla Fiat” testimoniati da operai comunisti come Aris Accornero e Emilio Pugno. Destinati in quanto “sabotatori” della pace sociale in apposite officine isolate, i cosiddetti “reparti-confino”. Erano i giorni della guerra fredda, il conflitto di fabbrica era insieme sindacale e ideologico. In quello che Carlo Marx definiva “il segreto laboratorio della produzione”, dove “si dovrà svelare l´arcano della fattura del plusvalore”, si consumava una lotta di classe finalizzata a modificare la condizione operaia, ma anche gli assetti del potere politico.
Quel sapore antico che la Fiat italo-americana ha scelto di riproporre nell´estate del 2010 ha però ben poco a che vedere con la cultura di Vittorio Valletta, il padre-padrone di un´epoca superata. Il manager apolide Sergio Marchionne non somiglia al suo predecessore, non concepisce il rapporto con le maestranze come destino ineluttabile di una comunità su cui esercitare l´egemonia, ma alla quale Valletta si sentiva comunque ineluttabilmente vincolato per la vita. Marchionne guarda Melfi da lontano, come già Pomigliano d´Arco. Protagonista di una nuova divisione internazionale del lavoro, soppesa gli stabilimenti italiani e li confronta con quelli di Detroit (Usa), Belo Horizonte (Brasile), Tychy (Polonia), Kragujevac (Serbia). Non un pensiero egli dedica al miglioramento del lavoro operaio, tema desueto. Ormai l´ingegnosità è considerata un lusso riservato a pochi.
Rispetto a Valletta, la sua distanza dalle maestranze si è enormemente accresciuta. Come testimonia anche la sproporzione degli emolumenti percepiti dai due manager: Valletta guadagnava 20 volte il reddito della media dei suoi dipendenti; Marchionne 435 volte un operaio italiano, rispetto al quale vive dunque su un altro pianeta.
Vero è che, insieme a Marchionne, è l´intero establishment, compresi due grandi sindacati come la Cisl e la Uil, a trasmettere un messaggio univoco alle maestranze italiane dell´automobile: o mangiate questa minestra, o saltate dalla finestra. Nessuna speranza di emancipazione viene più correlata a tale diktat. Questa è la drammatica differenza rispetto alle promesse di cui pure gli anni Cinquanta del secolo scorso erano portatori, tanto è vero che – grazie anche alla resistenza sindacale – furono seguiti da un ventennio di crescita non solo per l´azienda ma anche per le famiglie dei suoi dipendenti, contraddistinto da conquiste salariali, normative e sociali.
I politici, i manager e i sindacalisti che oggi prospettano ai dipendenti dell´industria nazionale la necessità di ulteriori sacrifici, pena la delocalizzazione degli impianti verso aree produttive più convenienti, devono fare i conti con un grave handicap di credibilità. Da trent´anni, ormai, cioè a partire dal fatidico autunno 1980 in cui la “marcia dei quarantamila” pose termine all´occupazione dello stabilimento torinese di Mirafiori, il susseguirsi di promesse mirabolanti circa il futuro della condizione operaia si è rivelato bugiardo.
Chi se le ricorda più? Le favole sulla “qualità totale” contraddette dalla difettosità dei prodotti e dalla contrazione delle quote di mercato. Il miraggio dell´automazione e della partecipazione creativa, smentito dal dirottamento degli utili aziendali in fallimentari diversificazioni finanziarie. L´illusione di uno scambio fruttuoso tra pace sindacale e miglioramenti salariali, tradotta nella realtà di dieci punti di Pil passati dalle tasche dei lavoratori ai profitti.
Già da tempo la busta paga è solo una componente parziale del bilancio delle famiglie operaie, costrette ad arrangiarsi: senza l´apporto supplementare dei parenti pensionati, del lavoro femminile e del doppio lavoro in nero, la caduta dei consumi sarebbe stata verticale. Guai a dimenticarselo, quando si fa appello al senso di responsabilità dei dipendenti Fiat. Sopravvissuti a una fase storica in cui il capitalismo italiano si è esibito in una distruzione per nulla creativa, diversamente da quanto preconizzava Schumpeter.
Marchionne si ritiene autorizzato a ignorare tutta questa storia, risponde ad altre logiche, ma una classe dirigente che si è arricchita mentre l´Italia del lavoro dipendente si impoveriva, avrebbe il dovere di ricordarglielo, dopo che ne ha subito il fascino, non senza buone dosi di provincialismo.
La Fiat che intraprende a Melfi un braccio di ferro con la magistratura, dopo quello sulle normative contrattuali a Pomigliano – e ora, per giunta, su un pretesto esile come il blocco dei carrelli automatici durante uno sciopero – dubito che miri a una riforma organica del diritto del lavoro italiano. Più probabile è che cerchi una motivazione simbolica per dislocare altrove i suoi futuri investimenti. Non le dispiace quindi la prospettiva di una stagione conflittuale in quella che considera ormai solo una provincia dell´impero.
È la politica italiana che, invece, dovrebbe temere l´esito del crescente malcontento operaio, anziché liquidare la Fiom alla stregua di un residuato bellico. Preoccupa l´irresponsabilità con cui Bossi, nei giorni scorsi, ha dichiarato di essere interessato solo alla tenuta degli stabilimenti torinesi della Fiat. E pazienza se quelli meridionali vengono liquidati. La contrapposizione fra territori più o meno “meritevoli” di essere tutelati, non solo preclude l´efficacia di una politica industriale lungimirante, ma rischia di produrre lacerazioni assai più pericolose di una classica vertenza sindacale nazionale.
Quanto a Marchionne e alla sua stanza dei bottoni planetaria – da cui i tre “confinati” di Melfi si scorgono appena col telescopio – la sorpresa potrebbe giungere prima di quanto non si aspetti. Preannunciata dall´ondata di scioperi nelle fabbriche cinesi. Cosa succederà quando a pretendere la giusta mercede, con ben altra possanza rispetto agli sfiancati operai italiani, saranno i brasiliani di Belo Horizonte? Roba dell´altro mondo.

La Repubblica 24.08.10