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«Uno sciopero della fame per l'Italia», di Giuseppe Provenzano

Anche oggi il tempo è fervido a Palermo, agli angoli di strada ammassi di rifiuti, sul punto di andare in fumo – che «ristagna sulla città, come un’enorme nuvola compatta» – di squagliarsi, bruciare. «Palermo è fetida, infetta…». Le parole di Vincenzo Consolo le abbiamo imparate a memoria, troppe volte ripetute da quell’estate lontana in cui furono scritte. Anche oggi, si squaglia – si brucia – in via Praga. Di fronte al Provveditorato agli studi, un presidio e tre uomini in lotta. Dal 16 agosto, sono in sciopero della fame. Combattono ancora, ma è come se già si fossero arresi.

Quante ragioni per uno sciopero della fame? Quante ragioni precise – «concrete», come si dice oggi? Tutte quelle che non possono venire in mente a chi è pronto a deridere questa forma estrema di protesta. In via Praga, Giacomo Russo, Salvo Altadonna e Pietro Di Grusa, precari della scuola, non fanno uno sciopero della fame per tutte le loro ragioni «concrete» – non tanto, cioè. Non solo per i tagli della Gelmini, che in Sicilia – regione col più alto abbandono scolastico e col più basso rendimento negli studi – ridurranno gli organici di oltre 7000 persone (dopo le oltre 7000 dell’anno passato) e renderanno il tempo pieno poco meno di un’eccezione. Non solo per sottrarsi alla guerra infame tra ultimi e penultimi a cui li stanno costringendo: la guerra tra loro, precari statali, e i precari regionali e locali, bacini elettorali inestimabili, di cui si fa carico «mamma Regione», che entrano negli organici scolastici solo in parte di diritto, che in teoria non fanno organico ma che di fatto bloccano le chiamate e ingessano le graduatorie, rendendo molto teorico l’esubero di personale scolastico e spesso reale il sottodimensionamento nelle singole scuole.

Sì, certo, ai tagliati dalla Gelmini, non rimane che una protesta per «tagliati fuori». Eppure, Giacomo – che ha trent’anni, sguardo cristallino e tenace concetto – lo spiega con fredda lucidità: «Il mio sciopero della fame non è una per una ragione concreta, per una richiesta specifica. L’avevo già fatto l’anno scorso, per 12 giorni. Fino a quando sono stato ricevuto e rassicurato dal Governatore Lombardo». Eccolo qua, di nuovo. Al punto di partenza, di arrivo. «Quest’anno – dice così: quest’anno…- il mio sciopero della fame è per l’Italia, il Diritto, la Costituzione».

Non digiuna per un posto di lavoro, per una rivendicazione sindacale. Vuole dirlo a un Paese che relega tutto comodamente a questioni sindacali, «alle cose concrete», rinunciando a capire quanto invece i problemi siano «politici». Un po’ come a Pomigliano. Di politica, in questo sciopero della fame, si ha una grande sete: «La Politica manca come l’acqua». Parola di bidello, Giacomo, fino allo scorso anno assistente tecnico. «Scrivi pure bidello: per me è più dignitoso di onorevole o ministro». Si guarda bene però dal qualunquismo, riconosce che il Pd e l’Idv ci sono, con alcuni rappresentanti locali. Tuttavia, sa che non basta. Gli chiedo cosa potrebbe fargli interrompere la deprivazione dal cibo. Ci pensa un poco: «Smetterò quando il ministro Gelmini mi convincerà che la sua riforma è un bene per il Paese». Ragionamento inquietante, in un Paese che si vergogna delle idee, e le chiama «idealismo»: ragione che preoccupa.

Ci sono ragioni di preoccupazione soprattutto per Pietro, che ieri è stato ricoverato in ospedale. Uno che ha fatto le medie serali («perché un tempo, la scuola era la cosa più importante») e nella vita ogni mestiere (muratore, lavapiatti, elettricista, «fontaniere»), che in 25 anni di iscrizione nelle liste scolastiche ha fatto in tutto un anno e mezzo di supplenze come collaboratore, che accumula debiti e bollette e avvisi di sfratto, che nell’ultimo anno è vissuto di Caritas. Si sente già un «uomo morto».

Cosa chiede? «Un lavoro per poter tornare a casa, o almeno una bara». Salvo mi mostra le carte e mi spiega i tecnicismi. Salvo spiega bene, tutti spiegano bene. Poi però si ferma, e torniamo alla Politica. Mi dice dei problemi «a monte», dei sindacati divisi che dividono, della mancata di coscienza di una categoria screditata facilmente in questi anni, dalle parole di Brunetta al progetto freddo di distruggere la scuola pubblica. Del resto, a Palermo lo sanno bene: poco distante è lo Zen, dove di tanto in tanto prendono a sassate le finestre di una scuola, la «Falcone». La scuola fa paura alla malavita. Certo, allo Zen distruggono la scuola con le pietre e le bottiglie incendiarie, a Trastevere con le controriforme.

Avvertito dello sciopero della fame il 19 agosto, il Viceministro Pizza, incontrerà i tre palermitani il 26. Avrà fatto i conti con l’agenda: in tutto, dieci giorni. Dieci giorni senza mangiare. Cosa sono dieci giorni? La storia, in questo Paese, deve fare i conti con le agende. E anche i delitti, soprattutto in Sicilia. Il Viceministro dev’esserne certo: Pietro sta male, ma se l’è sempre cavata, se la caverà.
Alle due, 38 gradi all’ombra, rimaniamo in pochi: dieci in tutto, con gli amici e i compagni del presidio. Un poco scherziamo, ma si pronunciano parole esose: «Protestiamo, incontriamo le istituzioni… ma ci sentiamo un po’ come ebrei che chiedono alle SS di risolvere i loro problemi». «Io mi sento una deportata», dice Caterina Altamore. Dopo 14 anni di servizio a Palermo è stata costretta ad accettare un incarico annuale a Brescia. E così anche Silvia, però a Novara. In aereo incrociano lo sguardo di tante colleghe («i deportati», sono soprattutto donne): la stessa storia, nuova e antica di Sud, la stessa buona dose di orgoglio. Chissà quante con la stessa paura di Caterina: «La paura che la mia decisione non fosse capita dai miei figli».

Ecco, una chiave per questa tragedia quotidiana. Le madri e i figli. Caterina e gli altri ricordano le parole di Obama: «Non si licenzia chi educa i nostri figli». Sarà lo slogan della manifestazione del 26 agosto, organizzata da uno dei gruppi in cui ovviamente anche i precari di Palermo sono divisi. Avevano sfilato per le strade della città l’anno scorso, migliaia di maestri che non avrebbero più fatto i maestri. Erano un esercito. A guardarli, facevano paura: cioè, non facevano paura più. E veniva in mente la volta in cui lo Stato mandò l’esercito in Sicilia per combattere la mafia, e uno scrittore elegante disse che piuttosto ci sarebbe voluto «un esercito di maestri elementari».

Più che a un Viceministro bisognerà rivolgersi alle madri siciliane. Raccontare loro la sorte di figli in classi sovraffollate, scuole che cadono a pezzi, ore in meno di italiano, la stessa sorte di chi educa i propri figli – e in Sicilia li sottrae agli abbandoni precoci, alla prossimità alle mafie. Solo allora, forse, cesserà questo maledetto sciopero della fame. Solo le madri potranno ridare pane a Pietro, Salvo e Giacomo, come fossero i loro figli. Proprio come ai loro figli.

L’Unità 23.08.10