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«Alleanza larga non vuol dire nuove ammucchiate», intervista a Piero Fassino di Mario Lavia

Parla Piero Fassino: il candidato premier del Pd è Pier Luigi Bersani. «Siamo di fronte ad una crisi che non è né transitoria né temporanea, ma strutturale». L’impressione, parlando con Piero Fassino, è che “la fine è nota”, lo scivolamento verso le urne un esito quasi sicuro, anche se c’è un signore che ne è terrorizzato chiamato Silvio Berlusconi.
La vulgata dice che è il Partito democratico ad avere paura.
Dobbiamo cominciare a dire con più forza che noi le elezioni non le temiamo, anzi, e che al contrario è il premier ad averne paura perché sa che non otterrà mai più il 37 per cento del 2008. Alle europee era sceso al 35, alle regionali era sul 30, secondo i sondaggi è sotto quella soglia… D’altronde se davvero volesse aprire la crisi dovrebbe andarsi a dimettere. Avrebbe già potuto farlo e non lo ha fatto. E non lo ha fatto perché ha paura.

Ma che margini ha per andare avanti in questa situazione?
Strettissimi. Perché tutto quello che sta succedendo rende evidente l’esaurirsi di un ciclo politico e anche della forza del suo protagonista principale. Questo governo è investito da inchieste giudiziarie, approfondendo le distanze fra politica e società, i continui bracci di ferro di Berlusconi sulla giustizia si sono tradotti in fallimenti. E infine non credo che il contrasto con Fini sia componibile: ci pensa ogni giorno Feltri a tenerlo ben vivo…

Anche Tremonti ne esce male.
Lui si è prodotto per una cosa sola: la tenuta dei conti pubblici. Ma in omaggio a questo obiettivo, in sé giusto, non ha sostenuto alcuna politica per la crescita, lo sviluppo, le liberalizzazioni, le riforme. È un altro segno del fallimento strategico di questo governo.

Meglio il voto, allora?
Dunque, intanto Berlusconi deve venire in parlamento per certificare questa situazione di crisi e perché dopo si possa aprire una fase diversa.

Ma si può varare un governo diverso da quello uscito dalle urne? Il Pdl già agita lo spettro del ribaltone…
Io penso, e non da oggi, che in una democrazia dell’alternanza quando vengono meno una maggioranza e il suo leader, e soprattutto si è giunti alla fine di un ciclo, si deve tornare alle urne. Ma qui c’è un aspetto ineludibile, e cioè questa pessima legge elettorale che può produrre effetti perversi.
Basti pensare che se alle elezioni andassero 4 o 5 raggruppamenti elettorali il vincitore con il 30,35 per cento dei voti avrebbe il 55 per cento dei seggi: una sproporzione che non ha eguali al mondo. E che fra l’altro metterebbe il vincitore nella condizione di essere fortemente contestato da tutti gli altri. Per questo dico che sarebbe meglio un governo di transizione non per fare un ribaltone ma per una brevissima durata per fare una nuova legge elettorale.

Mettiamo che non si fa e si va dritti alle elezioni. Il Pd che propone, con chi si allea? Veltroni parla di «alleanze fondate su una reale convergenza»: niente ammucchiate.
Veltroni dice molte cose condivisibili, a partire dal suo allarme per la crescente distanza fra il paese e il sistema politico…

Ma?
Ma un’alternativa cammina su due gambe.
Certamente su un programma che parli al paese, come giustamente sollecita Veltroni, ma anche di uno schieramento che lo porti avanti. E io non penso che un’alleanza che vada dall’Udc alla sinistra passando per il Pd sia un’ammucchiata. D’altra parte è un’alleanza che abbiamo già sperimentato due volte: alle regionali e al secondo turno delle amministrative del 2009. Senza contare che in parlamento abbiamo votato assieme il 95 per cento delle volte.

Facile dire no tutti insieme, più difficile dire dei sì. Non c’è il rischio di un’Unione- bis?
Ma il nodo delle alleanze è ineludibile. In tutta Europa il modello bipolare è pluripartitico: in Italia non ci sono due partiti ma due coalizioni.

Ma la vocazione maggioritaria…
La vocazione maggioritaria significa che il Pd deve avere un consenso largo ma che non è esclusivo e che ha la capacità di guidare una coalizione. Nessuno ha mai pensato di poter prendere il 51 per cento.

Questo giornale ha scritto che alla fine, il problema del Pd è sempre quello: il candidato premier. Sbagliamo?
È certamente un passaggio importante. Alleanze e candidati sono più facili da scegliere quando la prospettiva delle elezioni è concreta. Prima è più complicato, prevale la tattica… Però io sono favorevole allo schema europeo: il candidato è il leader del principale partito della coalizione.

Non servono le primarie?
Le primarie è giusto farle. E il Pd ci va con Bersani candidato premier. È moralmente ingiusto che il leader del partito più forte poi si debba fare da parte, lo lasci dire a me che sono stato segretario del partito più grande per sette anni…

Bersani, dunque. Se fosse la posizione di tutta Area democratica sarebbe una novità.
A parte che anche da noi possono esserci opinioni diverse, io penso che il congresso sembra ormai lontanissimo, con tutto quello che è successo dopo. Francamente far sopravvivere quella dialettica sarebbe ridicolo e anche poco spiegabile. Noi dobbiamo garantire un partito unito intorno a Bersani. Ciascuno naturalmente con il suo profilo, ma consapevoli tutti della responsabilità che abbiamo di fronte al nostro partito e al paese.

da Europa Quotidiano 25.08.10