attualità, cultura

"Repubblica fondata sul turpiloquio", di Gian Enrico Rusconi

Ci avviamo verso una repubblica del volgo. Lo si sente dal linguaggio ormai corrente dei suoi esponenti politici più in vista, un linguaggio volgare, nel senso letterale del volgo, appunto. Quando chiedete la ragione dell’indecenza delle battute di molti politici, sentite rispondere: «Ma così parla la gente!». I politici parlano (finalmente) come la gente al bar o sotto l’ombrellone. In realtà è un inganno: più la politica non sa argomentare e affrontare i grandi problemi, più aggredisce con la finta intimità dello scurrile.

Quando anni fa l’innocua parola «gente» è entrata nel linguaggio politico non più a segnalare una moltitudine anonima di persone, ma a indicare un soggetto politico cui rivolgersi, si disse che era la versione dell’americano «people». Adesso però siamo arrivati al vulgus alla latina (prossimo alla plebs, non quella della repubblica romana, ma quella del cesarismo).

Ma perché mai Bossi, che è il campione dell’involgarimento del linguaggio pubblico, non dovrebbe usare nei confronti di Casini il doppio senso che è associato quotidianamente al suo nome? Perché non chiamare gli avversari politici con gli epiteti che sono comuni nelle conversazioni tra amici? Questi epiteti suoneranno indecenti alle orecchie di chi è ancora affezionato allo stile verbale della Prima Repubblica (italiana). Ma è tempo che ci si abitui al linguaggio della Repubblica attuale, ancora senza nome proprio, comprese le sue varianti goliardiche e parolacce (per usare un termine che ora suona deamicisiano).

La gente scambia la volgarità per genuinità; invece è un trucco per sottrarsi alle spiegazioni. Se si dà dello «stronzo» a un collega politico, ci si sottrae all’onere della dimostrazione. E soprattutto distrae e diverte la gente che ormai non fa neppure più finta di scandalizzarsi. I giornalisti poi ci fanno sopra un bel pezzo di colore che divertirà i loro lettori. Tutti si divertono. Come comico residuo del pudore giornalistico sono rimasti i puntini con l’iniziale (c…, m…, ecc) che riempiono con sempre maggiore frequenza le cronache politiche. È una strizzatina d’occhio d’intesa tra giornalista e lettore.

Altrimenti che barba questa politica, incomprensibile e inconcludente. Ecco allora le sparate che perforano lo schermo televisivo o quello del tedio della comunicazione politica: devi colpire con la battutaccia, là dove ti mancano gli argomenti.

Esistono paradossalmente anche forme sofisticate di volgarità. L’ultima è quella vista nei giorni scorsi rivolta contro l’articolo di «Famiglia Cristiana» che con severità e precisione argomentava la sua critica a Berlusconi. È stato definito «pornografia politica». Bossi avrebbe detto semplicemente che è una «stronzata». L’espressione di un esponente del Pdl che ha parlato di «pornografia» è sembrata più intelligente, e zelantemente ripresa dai tg nazionali. In realtà la sostanza è la stessa: quando mancano gli argomenti, ci si rivolge all’insulto.

Ogni fase della Repubblica italiana ha avuto il suo linguaggio o gergo. Quello della Prima Repubblica è stato ideologico, serio o serioso anche nelle sue forme aggressive. Era un linguaggio insieme controllato e allusivo; poi a partire da un certo periodo è diventato un codice per adepti. Ma era sempre costruito sulla separatezza tra privato e pubblico, la cui rottura è la premessa che trasforma anche l’attacco ideologico più duro (frequente tra comunisti e democristiani) in insulto volgare. Naturalmente anche allora i politici in privato usavano parolacce. Ma rimanevano, appunto, rigorosamente private.

Con il tracollo della Prima Repubblica il linguaggio è sembrato inizialmente liberarsi da ipocrisie; è sembrato innovativo oltre che dissacrante. Poi è cominciata un’inarrestabile aggressività. Al suo interno l’innovazione comunicativa di Silvio Berlusconi ha messo in moto una dinamica espressiva nuova, carica di aspetti sia negativi che positivi (che vanno riconosciuti francamente) che soltanto oggi sta deragliando verso la vera e propria volgarità, di cui stiamo parlando. Ciò che stupisce è la passività dell’intero sistema mediatico italiano di fronte a questi fenomeni. Sembra che sia complice o succube dell’attivismo dei nuovi leader della repubblica del volgo.

Gli intellettuali hanno provato un’altra strada, quella di esporsi alla sfida di espressività alternative, forme nuove come i festival in piazza, che sono però insufficienti a cambiare il segno del discorso pubblico.

La Stampa 26.08.10