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"La metafora della follia", di Michele Serra

Una rissa tra ginecologi in una sala parto, con scambi di pugni e vetri infranti, non è neanche classificabile nella già notevole casistica della “malasanità”. È piuttosto uno di quei sintomi di ammattimento sociale che turbano per la loro irriducibilità a qualunque regola, non parendo vero che proprio in quel luogo, e nell´urgenza di un cesareo, siano due medici a usare violenza, prima che a loro stessi, alla fragilità di una madre e di un bambino affidati alle loro cure.
Entrambi, madre e figlio, hanno avuto conseguenze gravi (danni cerebrali per il neonato) al termine di un parto difficile. La direzione sanitaria dell´ospedale di Messina fa sapere che la rissa non è avvenuta in presenza della madre, e che il cesareo avrebbe comunque presentato gravi difficoltà. Vero o non vero (la versione del padre non coincide affatto), rimane lo sgomento per un episodio che sarebbe solamente surreale – con venature di umor nero alla Mash – se non fosse annichilente. Il parto è uno di quegli avvenimenti che sospendono – non solo tra gli umani – ogni altra esigenza o attività o retropensiero. Mette in secondo piano, per il tempo necessario a compiersi, la vita attorno: compresa, ovviamente, la “rivalità professionale” alla quale le cronache attribuiscono lo scontro fisico tra i due dottori.
Se davvero a quella “rivalità professionale” puerpera e nascituro devono la loro infelice esperienza, e i danni subiti, l´episodio è di una gravità quasi incommentabile. Ma in ogni caso, anche se le sorti infauste del parto fossero indipendenti dall´inconsulto consulto che lo ha preceduto, ci si domanda quali siano, e se esistano ancora, le situazioni e i luoghi nei quali le “rivalità professionali”, e in generale i propri affaracci privati, i propri tiramenti, i propri isterismi, contano zero rispetto ai doveri sociali, alle esigenze della comunità, a priorità evidenti come un parto difficile in un ospedale pubblico. Il timore di una società in preda a incontenibili pulsioni narcisistiche, e sbocchi nevrastenici alla “lei non sa chi sono io”, e ossessionanti mire di carriera e di autoaffermazione (che formano legioni di frustrati e, di pari passo, legioni di violenti), in storie come questa di Messina trova le sue pessime conferme.
È come se argini sempre più fragili si opponessero alle pulsioni individuali, così che una scazzottata tra ginecologi “rivali” in sala parto magari può anche apparire, ai due protagonisti, come uno spiacevole ma comprensibile episodio “professionale”, cose che hanno a che fare con la carriera, con il ruolo nelle gerarchie interne, con la volontà di farsi valere. Fuori da quella logica – farsi valere, avere ragione, imporre il proprio carisma indipendentemente dal talento e dal calibro umano – che cosa rimane ancora in piedi? Non la vetrata infranta della sala parto, metafora di tutte le paratie, i limiti, le zone di rispetto che i rissanti travolgono senza curarsi dei danni e della paura altrui. I cocci li raccolgono sempre gli altri. In genere le donne.

La Repubblica 29.08.10